La vita è il mio viaggio. L'amore ne è meta, bagaglio, percorso.



PoesieRacconti

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lunedì 27 settembre 2010

AMARANTO, un altro mio breve racconto

Prima del trasloco aveva voluto dare un’ultima occhiata al nuovo appartamento.

Quattro piani senza ascensore non erano certo uno scherzo per le sue gambe acciaccate e la sua schiena già afflitta da troppi malanni, ma il panorama di cui avrebbe goduto ogni mattina affacciandosi lo avrebbe ripagato di ogni fatica.
Il terrazzo era molto ampio, ben assolato; e dominava l’intero centro storico, troneggiando fiero sopra i tetti sbilenchi delle vecchie case confinanti, che sembravano sistemate lì attorno apposta per sorreggerlo.
Ingombrante eredità del precedente inquilino, sul terrazzo dimorava una pianta solitaria che, con le sue efflorescenze scarlatte a forma di spiga, gli era subito parsa poco più di un’erbaccia. Alla quale peraltro, visto le sue scarse conoscenze botaniche, non avrebbe saputo dare un nome.
L’aveva guardata pensieroso, rammaricandosi per lo spazio rubato dall’enorme vaso in coccio sbrecciato che la ospitava, ormai sbiadito dal sole e dal tempo anche se un tempo doveva essere stato bello.
Almeno nella sua intenzione, si trattava certamente di uno sguardo di addio. Ma poiché era un uomo generoso, non avrebbe potuto sfrattarla da quello che era stato il suo legittimo alloggio, e si sarebbe piuttosto rassegnato ad attenderne la spontanea dipartita.
Infatti, lì dove l’aveva trovata l’aveva lasciata per mesi, senza un filo d’acqua o qualsiasi altra cura. Senza tuttavia che la sua indifferenza sembrasse destinata a raggiungere l’esito tanto atteso.

Non gli erano mai piaciute le piante, tanto meno quelle ornamentali. Così inutili eppure così vive, autonome, irriverenti. Come tutte le persone che aveva avuto accanto: così complicate, così lontane dal suo modo di essere. Persone cui era stato legato, dal sangue o dal destino, ma alle quali, per esser tanto diverse da lui, non era mai riuscito a voler bene veramente. Poiché tutti, si sa, amiamo più facilmente ciò che ci somiglia.
Più di una volta e da più parti, si era sentito rimproverare per la scarsa propensione a comunicare coi propri simili.
Ma quali simili? Lui non era simile a nessuno. Perciò, non riusciva ad amare.
Trovava più semplice affezionarsi agli oggetti che alle persone, e ne amava alcuni in particolare. Per la pazienza, la fedeltà e la comprensione che questi sapevano mostrargli. La pendola antica in salotto, la vecchia pipa del nonno, il guanciale di piume, i suoi calzini.
Amava questi oggetti perché tolleravano, senza criticarla, la sua cattiva abitudine di tardare agli appuntamenti. Vizio che, certamente, non nasceva dalla volontà di svilire il tempo altrui, ma piuttosto dal vano tentativo di ottimizzare il proprio.
Li amava perché non lo avrebbero mai deriso, per non aver mai avuto una donna, né avrebbero insinuato, in modo superficiale, fosse per via della sua perenne alitosi, figlia inconsapevole di un’infelice scelta dell’aroma del tabacco.
Infine li amava perché dimostravano, in qualche modo, di apprezzare il suo ordine. La meticolosità profusa ogni mattina nel rifare il letto, la precisione metodica nello stendere all’aria file interminabili di mutande e calzini.

Insegnava matematica al liceo, anche alla mia sezione, ed era indiscutibilmente un ottimo insegnante. Uno che masticava numeri a pranzo cena e colazione.
Era anche uno dei docenti più temuti in tutta la scuola. Sia per la materia alla quale cercava di indottrinarci, ostica a molti studenti, sia per la moralità incorruttibile, che lo portava a difendere e premiare il solo merito, dei suoi alunni. Senza cedere, come parecchi colleghi, alle lusinghe di facili privilegi; quei riconoscimenti e favori riservati, dai papà influenti di figli non proprio cervelloni, ai docenti che ritenessero di poter spianare, in nome di una discutibile bontà di intenti, il percorso scolastico un po’ traballante dei loro giovani rampolli.
A me, che ho sempre amato formule ed equazioni, il professore non faceva paura. Anzi. Nutrivo per lui un’ammirazione sincera e profonda; quasi un’infatuazione, per la sua mente: così pura, semplice, ordinata.

Il prof non sorrideva quasi mai, o almeno non lo faceva apertamente.
Perché invece io lo percepivo, il suo sorriso. Immaginandolo. Ogni volta che entrava in classe, con la cartella delle verifiche corrette infilata sotto il braccio. Ed entrando ci guardava in faccia serio, uno ad uno; per poi pronunciare, fra due labbra che sembravano quelle di un ventriloquo, una delle sue battute preferite:
“Le sufficienze si contano sulle dita di una mano monca.”
“Nel venire mi sono imbattuto in un’orda di cani famelici, attratti dall’odore di pollo spennacchiato.”
Battute che nessuno apprezzava. Tanto era schiacciato, l’umorismo, dal timore dell’ennesimo votaccio irrecuperabile da recuperare.
Nessuno tranne me. Che avrei voluto sorridergli, e solo per delicatezza non lo facevo. Perché certamente su una di quelle poche dita c’era la mia sufficienza, e un mio qualunque gesto sarebbe stato male interpretato. Ma nel mio intimo speravo, e in fondo credevo, che anche lui percepisse il mio sorriso, immaginandolo.
In silenzio apriva la cartella, impugnava a due mani il plico dei compiti, passava tra i banchi. Per consegnarci il suo verdetto, insieme a quei fogli che, il più delle volte, erano a suo dire soltanto “inutili cumuli di fregnacce”.
Dispensava ad ognuno l’occhiata più adeguata. Di disappunto o rammarico, proporzionati al grado di inutilità delle fregnacce di cui il malcapitato era riuscito a fregiarsi. Di moderata soddisfazione, nei rari casi di consenso.

Ogni volta era un trionfo, per me, la riprova di non averlo deluso. La gioia più grande che ricordi, dei tempi della scuola.
Non mi importava il voto. Ma il mio cuore idealista di ragazzina fremeva ad ogni sua approvazione, anelando come a un trofeo a una briciola della sua stima.
Aspettavo con ansia ogni verifica, e con trepidazione ancor maggiore attendevo ogni riconsegna. Perché in quegli istanti avrei sentito di nuovo le nostre menti avvicinarsi, vibrare all’unisono, sfiorarsi.
Attimi preziosi.
In cui avrei avuto, nei miei occhi, l’azzurro fugace del suo sguardo compiaciuto.
In cui avrei stretto ancora, complice il foglio conteso tra le mie e le sue mani, quel filo impalpabile che, lo sapevo, ci legava in un’amicizia segreta, bella e profonda.

Lui non aveva amici, oltre a me. Di nemici invece ne aveva tanti. Inevitabile, nella sua posizione.
E così, inevitabili, arrivarono le calunnie.
Poi, con le calunnie, le prime denunce. Spietate rappresaglie di un gruppo di ragazzotti prepotenti, che miravano soltanto a toglierlo di mezzo.
Ho sempre saputo che erano maldicenze. Perché conoscevo bene il professore, e sapevo che certe cose non le avrebbe mai fatte.
Quando la vedi vivere, una persona, puoi dire di conoscerla. Ed io lo avevo visto vivere, in casa sua.
Lo avevo osservato tutti i giorni, per mesi, dal terrazzino su cui affacciava la nostra mansarda, che per mano di mamma era un’oasi fiorita ad ogni stagione.
Per averlo a lungo osservato, ne conoscevo gesti e abitudini. E conoscendolo bene, il mio prof, ero certa della sua innocenza. 
Ma il dubbio si era insinuato in molti, e in pochi continuavano a fidarsi.

Di fronte a tanti sospetti, e in preda allo sconforto, lui pensò di dover lasciare il liceo e l’insegnamento. Ché ormai era vicino alla pensione e non sarebbe più potuto, comunque, arrivarci in gloria.
Nonostante questo, i suoi ex allievi non vollero dargli tregua.
E dopo le calunnie e le denunce, arrivarono piogge di sassi sulla sua auto in sosta, e telefonate persecutorie, e minacce.
Lui tollerava tutto, in silenzio. Con una pazienza che solo io, amandolo, comprendevo.
Perché capivo che in fondo la sua vita era tutta lì, fra quelle quattro pareti spoglie della sua abitazione in centro. Che lui non aveva bisogno di altro. Che non gli servivano amicizia e comprensione, da parte di nessuno. Le mie, poi, già ce l’aveva.
Le ingiustizie e l’arroganza del mondo non potevano toccarlo. Perché del mondo lui amava soltanto la sua terrazza piena di sole dove alle cinque in punto, ogni pomeriggio, avrebbe steso un paio di mutande e un paio di calzini, mettendoli in fila a quelli dei giorni precedenti. Dalla domenica al sabato, un paio al giorno.
Li avrebbe stesi e lasciati lì, in balia del sole, del vento e della pioggia. Sette paia, sempre; poi daccapo la domenica.
Liberi di sventolare, per sette giorni. Accanto al vecchio vaso di spighe scarlatte che non volevano appassire, e anzi fiorivano sempre più rigogliose nonostante la trascuratezza.

Al liceo arrivò un supplente più giovane e disinvolto, anche nell’elargire i bei voti.
E scuola e colleghi si scordarono subito di lui, che pure gli aveva dedicato i suoi anni migliori. Dispensando amore, o almeno indulgenza, per la sua materia e per i numeri; ed insegnando a molti, non solo a me, l’importanza di giustizia onestà e stima.
Certo in cambio non ebbe nulla di buono, il mio prof.
Ma scorrettezze in risposta a rettitudine, tradimenti in replica a lealtà, spregio invece che rispetto.
Un funerale di povertà, alla fine, come unico indennizzo alle sofferenze infertegli proprio da chi, sempre, da lui aveva avuto in prestito virtù e buoni sentimenti.
E dopo, soltanto un mare di oblio.

Ma il mio ricordo è vivo, ancora oggi. Come la nostra segreta, profonda amicizia.
Vive ancora anche la sua pianta, a lungo trascurata. Che per mio tramite ha traslocato, un giorno, dalla sua terrazza al camposanto.
Perché lui potesse, dopo tanto, sentirne il profumo. E magari apprezzarne il colore, caldo e intenso. Un bel rosso cremisi, sincero come il mio affetto immutato.
Amaranto.
Che bel nome, la sua pianta; ma lui non lo sapeva.
Dal greco Amarantos... “che non appassisce”. Come l’amicizia, la stima e i sentimenti veri, che non cambiano nel tempo.

Ora è sulla sua tomba, il vecchio vaso.
Là dove l’Amaranto, generoso, potrà perdonare il mio prof.
E dove potrà vegliare, con affetto e compassione, sul suo povero corpo inerme. Concedendo alla sua anima, finalmente, protezione e benevolenza.
Quelle che, certamente, anche in vita avrebbe meritato.
Il mio cuore lo sa.
Da sempre.
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giovedì 16 settembre 2010

IL TRENO PER DOVE, un mio breve racconto

Dedicato a tutti quelli che sognano di partire, a quelli che sono già partiti e, perchè no, anche a quelli che non partiranno mai.

L’alba svolse il suo mantello perlato, e lievemente lo stese su alberi, case, strade.
Carezzò piano la ragazza che, seguendo orme invisibili, era giunta in stazione. Poi la salutò, sussurrando; mentre svaniva in un sospiro azzurro, rotondo. Fluttuante come un dubbio.
La ragazza lo udì, e sentì di dover partire.
A un signore annoiato, che inseguiva col dito le crepe sul muro lungo la banchina, lei chiese:
«Mi scusi... sa dirmi quando passa, il treno per DOVE?».
«Non ha orario, signorina. Ma è sempre puntuale.»
E lei fiduciosa comprò un biglietto. Poi salì sul treno, ultima carrozza.
Come se quel viaggio servisse, a trovare una risposta. Come se quel treno potesse, finalmente, regalarle un po’ di pace.
Doveva pur trovarla, una risposta. Altrimenti l’avrebbe inventata.
La pace poi, forse, sarebbe venuta da sé. Insieme alla risposta.
La ragazza accolse con pazienza il rumore ritmico, e ripetitivo, che subito si insinuò nelle sue orecchie. Poi il faticoso sentore di sbuffi metallici, che presto iniziò a pungolarla da sotto il sedile scomodo. E infine l’implacabile inquietudine, che non attese molto per attanagliare, come una morsa, le sue gambe stanche.
Accettò tutto. Anche quando, dalle orecchie e dalle gambe, il rumore e l’inquietudine strariparono nel suo stomaco, e poi dallo stomaco si riversarono nel suo ventre.
Ci riuscì perché, dopo tutto, quei continui sobbalzi, quel fastidioso stridore di latta, quell’ostinato fracasso di ingranaggi, erano solo un solfeggio nella sua mente assente. Un solfeggio in due tempi: pausa in battere, due semicrome in levare.
Così, mentre i suoi pensieri stanchi continuavano a solfeggiare, oltre il finestrino, opaco di polvere e righe arrugginite la pianura, fuggendo desolata, tentava invano di specchiarsi nei suoi occhi.
Entrò una donna anziana, sedette accanto alla ragazza. Respirando piano, muovendosi silenziosa. Gli occhi chiari persi, malinconici.
Riflesse sul vetro torbido, le pieghe scolpite sul suo volto, magro e pallido, si mescolarono alle rughe di rugiada.
Ma la ragazza non vide la vecchia, non avrebbe potuto. Il suo sguardo continuava a inseguire impronte invisibili. I suoi occhi non riuscivano a riflettere la pianura che le correva accanto. E la sua mente, assente, era già al capolinea.
Né la vecchia vide la ragazza, piuttosto la percepì come un’ombra. Immobile nella poca, sbiadita luce tiepida che filtrava dal finestrino. Silenziosa, nella corsa rumorosa di quel fragile ammasso di ferraglie appeso ai binari.
Forse, in un altro posto, pur non vedendola avrebbe percepito il profumo, dolce e piacevole, della sua essenza provenzale.
Ma non su quel treno, dove l’aria umida era impregnata di fumo, e stantio. E le uniche folate percepibili dalle narici, le uniche che ancora potevano distinguersi nel fetore delle vecchie carrozze, puzzavano di piscio, e arrivavano dal bagno in fondo al corridoio. Ogni volta che la porta si apriva, e quindi ad ogni curva.
Se si fossero accorte l’una dell’altra, le due donne forse avrebbero parlato. Le loro chiacchiere, magari, avrebbero reso piacevole quel viaggio. Invece no.
Rimasero così, entrambe sole.
Prigioniere involontarie di un immutabile silenzio. Per l’una vuoto, per l’altra malinconico. Per entrambe costantemente immobile, nonostante la corsa inarrestabile. Della valanga di tempo che le avvolgeva, tiranno. Del poco spazio che le separava, spietato.
Prigioniere involontarie e inconsapevoli. Del Tempo, dello Spazio. Gli unici, subdoli artefici di quello strano viaggio improvvisato. Interminabile.
Al di qua del finestrino, come per secoli, sempre e solo quel rumore. Quella stancante percezione di sbuffi metallici che continuava a pungolarle, da sotto il sedile scomodo. E un’insostenibile inquietudine, nelle gambe sempre più stanche.
Oltre il finestrino la pianura, iridescente. Che ora correva incontro al treno, lasciando l’orizzonte a rosseggiare timido. Nella luce fioca dell’ultimo, esangue muro di cirri schierati a difendere il sole, ormai basso.
Correva e avanzava, la pianura. Sempre più veloce. Così veloce da non potersi specchiare, negli occhi della ragazza. Così veloce da non poterli neppure sfiorare, due occhi spenti. Talmente veloce da infuriare, infine, in un turbine tagliente.
Una tempesta, così repentina e inattesa da non poter essere udita. Scoppiata tuonando in un buio fulmineo, accecante. Per poi lentamente scemare in luce scura, spegnendosi.
Si udì un tonfo sordo, straziante.
Un botto, un urlo, un pianto. Qualcosa.
Forse la pianura era esplosa, aggrappandosi al treno. Poi, risucchiata da un vortice prepotente, si era mescolata alle infinite ordinate file di cipressi. Ormai in ombra, eppur fieramente protesi a tracciare il profilo, spigoloso, di un’apparente catena alpina.
Sulle finte cime, di quegli inesistenti monti, qualche superstite ricciolo di nebbia prese ad affrescare false vette, immacolate di neve o di ghiaccio. Porgendone l’illusione alla ragazza, e alla donna dagli occhi ancora spenti.
Regalando, ai loro sogni, una fantastica visione di candore e quiete: quei picchi innevati stagliati nel grigio, ora vermiglio, di un cielo di pianura.
Le due donne non vollero percepire il miraggio ma quello, prepotente, riuscì a marchiare le loro retine. E vi si impresse indelebile, a forma di DOVE.
E l’una si scrollò di dosso il torpore.
E l’altra riaccese lo sguardo.
...
Occhi negli occhi.
.


lunedì 13 settembre 2010

CASTELLI DI RABBIA, Alessandro Baricco

Accadono cose che sono come domande.
Passa un minuto, oppure anni,
e poi la vita risponde.
.
[...]
Il quarto rintocco.
Ci mise un paio di secondi a sentirlo tutto, dal primo spillo di suono all'ultimo refolo: poi scattò precipitosamente verso casa. Correva gridando una nota sotto il putiferio dell'acquazzone, contro il frastuono di quel putiferio. Non mollò la nota aprendo la porta di casa, e neppure correndo per il corridoio, sbiascicando fango dappertutto e acqua giù dai vestiti, e dai capelli e dall'anima, non la mollò fin che non arrivò nella stanza davanti al suo fortepiano, Pleyel 1808, legno chiaro venato da curve come nuvole, si sedette e incominciò a cercare tra i tasti. Cercava la nota, ovviamente. Si bemolle e poi la e poi di bemolle e poi do e poi do e poi si bemolle. Cercava la nota, nascosta tra tasti bianchi e neri. Dalla mano colava l'acqua del grande acquazzone, partita dall'ultimo dei cieli per lacrimare infine su un tasto d'avorio e scendere a scomparire nella fessura tra un do e un re - meraviglioso destino. Non la trovò. Smise di gridarla. Smise di toccare i tasti. Sentì un rintocco arrivargli, chissà quale. Si alzò di scatto, ripartì di corsa per il corridoio, saltò in strada, nemmeno si fermò questa volta, correva addosso all'acqua e incontro a quel suono che la campana regolarmente gli sparò attraverso un muro d'acqua - l'imperturbabilità senza scampo di una campana - e lui ricominciò a gridare quella nota che non esisteva e virando la sua corsa dentro il fiume in piena dell'acquazzone tornò difilato dentro casa, scivolò nel fango del corridoio fino al Pleyel del 1808, legno chiaro venato da curve come nuvole, e ritmicamente urlando quella nota che non esisteva ritmicamente si mise a percuotere i tasti uno dopo l'altro, per estorcergli quello che proprio non avevano e cioè la nota che non esisteva. Gridava e martellava, si bemolle e poi do e poi si bemolle e poi si bemolle e poi si bemolle, e gridava martellando i tasti con incredulo furore, o chissà magari era meravigliato entusiasmo - d'altronde erano lacrime o gocce di pioggia quelle che gli si squagliavano sul volto? Quando ripartì di corsa lungo il corridoio c'erano ormai sul pavimento abbastanza acqua e fango per farlo arrivare scivolando alla porta, e oltre a quella, scivolando, nella strada, dove di nuovo, ma con il respiro che gli ritmava un tempo tutto particolare, come un orologio impazzito chiuso nella cassa di quella pendola immane che era Quinnipak e il suo campanile, di nuovo alzò lo sguardo nel nulla della notte perché si impigliasse in lui più possibile di quella bolla di suono che regolarmente gli arrivò, giù dal campanile, attraverso i mille specchi dell'acquazzone fino alle orecchie, così che lui la prese, e come uno che portasse un sorso di acqua nel cavo della mano, riscappò verso casa, a dissetare chissà chi, a dissetare se stesso, e questo avrebbe fatto, ma arrivato a metà del corridoio di scoprì la mano svuotata, e cioè la mente vuota e silenziosa – fu un momento – fu forse anche l’intuizione di ciò che stava per succedere – fatto sta che si fermò, nel bel mezzo del corridoio, inchiodò la sua corsa artigliandosi ai muri e ai mobili, per poi voltarsi, come richiamato da una paura improvvisa, e risputarsi fuori dalla casa, oltre la porta fino in mezzo alla strada dove con i piedi persi in una pozza enorme di acqua torbida, si lasciò cadere in ginocchio e stringendosi la testa tra le mani chiuse gli occhi e pensò “adesso, proprio adesso” e mormorò “oppure mai più”.
Stava lì, come una candela accesa in un granaio che brucia.
Sepolto da un mare di suoni liquidi e notturni aspettava una rotonda nota di bronzo.
Un piccolo meccanismo scattò nel cuore dell’orologio del campanile di Quinnipak.
La lancetta più lunga si spostò avanti di un minuto.
In mezzo a un mare di suoni liquidi e notturni scivolò fino a Pekisch una rotonda bolla di silenzio. Sfiorandolo si ruppe, macchiando di silenzio il gran frastuono dell’infinito temporale.
[...]

.



.

sabato 11 settembre 2010

In memoria di un giorno da dimenticare


TA-PUM

TA-PUM
Uomini nascono.
TA-PUM
Bambini muoiono.

TA-PUM TA-PUM
Sabbia chiara e leggera
a raccogliere passi,
e aria scura e pesante
a sfiancare i polmoni.

TA-PUM TA-PUM
È il vuoto di ogni anello
a formare la catena;
e come nebbia, densa
è l’impalpabile che opprime.

TA-PUM TA-PUM
Eterea, e fragile
la vita;
robusta e solida
la morte.

TA-PUM
Tamburi lontani,
TA-PUM
Fucili vicini.

TA-PUM
Non la chiamano
guerra.
TA-PUM
Ma è forse pace?

SSST
Silenzio.

Per questa pace,
l’unica
... che è il compromesso


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Poesia premiata al Concorso a tema “La pace”
organizzato dal Centro Studi G. Puecher di Cernusco sul Naviglio, edizione 2009
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giovedì 9 settembre 2010

"La metà di credere", estratto

MIRFAK (seconda parte)
.
Ogni mattina, appena sveglio, scelgo un ricordo per la pedalata dell’andata. E cerco un pensiero, che mi accompagni in quella del ritorno.

I ricordi sono i miei preferiti.
E tra questi, il
vissuto più lontano, e segreto, della mia infanzia.
Mi piace, ripercorrere mentalmente quel tempo in questi luoghi. In questi campi, nell’aria immobile del mattino, ci sono odori, colori e rumori che aiutano la memoria. Riaffiorano, intense, immagini sbiadite. E tornano, vivide, lontane emozioni.
A volte, per sbaglio, me lo chiedo.
Cosa sarebbe, la mia vita. Senza i ricordi
.
Impensabile.
Solo una triste, continua ripetizione di confortanti ma infruttuose consuetudini.
Movimenti energici, programmati. Rapide e prevedibili mosse preparate, di un macilento copione sempre uguale. Su una scena
muta, e silenziosa. Sprofondata nel lento, e quasi inudibile, inesorabile ticchettìo di milioni di istanti. Fugaci e menzogneri.
Su una scena buia, e tetra. Come inabissata, irrimediabilmente, nel ventre capriccioso di un orizzonte frivolo, e impreciso. A tratti abbagliata, ad accecarmi, da un Sole ingannevole e superbo. Che ad ogni alba si accende disinvolto, strappando al cielo il suo mantello scuro. Per poi chinare il capo al tramonto, prima di spegnersi arrossendo; piegandosi, ma con testarda vanagloria, nella sua smentita sconfitta.
Questo, sarebbe. Soltanto questo, la mia povera esistenza.
Invece ho sogni, da vivere mentre dormo. E ricordi, da rievocare mentre vivo.
I ricordi sono qui, nella mia mente. Che respirano leggeri, nella memoria del passato; ed arrancano, con passi faticosi, nel mio insignificante presente.
Cosa sarebbe il mio oggi, senza i ricordi?
Nulla. E mai
.
Ma per fortuna, loro ci sono.

A zittire, per un attimo, l’insopportabile ticchettìo.

A bloccare, per un po’, le instancabili lancette.

Loro sì che vincono, sul Tempo.
Pochi minuti, giorni o anni. Soffiano rapidi, nei ricordi; eppure appaiono lenti, così dolcemente scanditi. In un tic.
Emozioni impalpabili, appena sfiorate. Nei ricordi solidificano in curve voluttuose che, sapientemente forgiate, si impossessano di una forma tangibile, perfetta. In un tac.
Ho una sola ricchezza, e sono i miei ricordi.
Il mio passato.
La mia memoria.
.

mercoledì 8 settembre 2010

Estratto di "La metà di credere"

MIRFAK (prima parte)
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L’alba è spuntata da poco.
E il gallo ha già cantato, tre volte.


Il pullman dei pendolari è già sfrecciato sotto casa, facendo stridere le gomme sull’asfalto. E sollevando un polverone nel tratto sterrato, dopo la curva. In ritardo, come sempre.
Mentre anche oggi il nero del caffè traboccava, ribollendo, dalla mia caffettiera sbigottita. Per allagare come al solito i miei poveri fornelli, e colorare la casa col suo aroma. Amaro, ma amichevole.
Sono già in strada, con i miei piedi lunghi e pesanti, a marchiare veloci il pulviscolo planato sull’asfalto. Ignorando il sonno, lento; che indosso sempre, come un fardello. Carico greve, che mal sopporto; nelle gambe, e nelle braccia.
Sono già stanco, al mattino. E tuttavia scattante, e preparato, al giornaliero arduo confronto.
Non ha tregua la mia rabbia. La notte riposa, accanto a me. Rannicchiata, si fa piccola; e sembra indifesa, come un tenero cucciolo peloso. Falsamente arrendevole mi offre, cortese, un morbido cuscino. Ma non dorme. E nel sonno mi punzecchia, e mi solletica, e bisbiglia al mio orecchio. Mi vuole pronto, agguerrito, accanito.
Una sfida infinita mi aspetta, al mio risveglio.
Un’altra battaglia, disperata e irrazionale; ma indispensabile.
È una lotta assurda, la mia
.
Contro il Tempo, invincibile. Da sempre mio acerrimo, invisibile, onnipresente nemico.

Contro il Tempo, inafferrabile. Tormento liquido, incontenibile.

Contro i Suoi sicari, mutevoli e insospettabili. Sempre spietati, infallibili. Ma quasi impercettibili, così sfumati. Confusi, nella folla delle mie idee, pur rare; e delle mie frequenti, vane intenzioni.

Pochi passi veloci, poi monto in sella, agile. E pedalo, nell’aria umida e frizzante che mi punge gli occhi; costeggiando la roggia, quasi asciutta, che corre parallela alla strada. Come ogni mattina. Come ogni sera.
Sono questi, i momenti più belli della mia giornata. Momenti magici, tutti per me. Per i miei pensieri, per i miei ricordi.
Pensare e pedalare. Pedalare e pensare.
Sono questi, gli unici istanti in cui serenamente posso concentrare tutte le mie energie sul pensiero. E il pensiero può viaggiare, finalmente libero. Senza timore di rubare spazio, prezioso, ad altre occupazioni. Più importanti, lo so.
È più importante, ciò che lascia traccia di sé.
Il mio lavoro è importante. Ogni lavoro lo è.
Invece i miei pensieri corrono, e scorrono; poi sfumano nel nulla, senza che quasi mi accorga di loro. Eppure mi tengono in vita, e forse dopotutto è questa la loro funzione.
...
Quando pedalo so di non dover guardare l’orologio.
Dodici, tredici minuti al massimo. Poi sarò in stazione.

Cinque minuti. Legherò la bicicletta alla rastrelliera, scenderò le scale, comprerò il giornale. Poi salirò i gradini verso il binario, e attenderò il treno.
Il treno è sempre in orario, non aspetto mai più di tre minuti.
Salgo sull’ultima carrozza; è tranquilla, e confortevole. Mi siedo, vicino al finestrino.
Apro il giornale, leggo i titoli principali, qualche volta uno o due articoli. Di più no, non riesco. Solo due fermate, alla mia.

Ripiego il giornale, lo infilo nella tasca del giaccone, mi preparo.
Per scendere.

.

martedì 7 settembre 2010

Arrivederci fratello mare, Nazim Hikmet

Salonicco, 20 novembre 1902 - Mosca, 3 giugno 1963

In esilio

VARNA, 1951

Ed ecco ce ne andiamo come siamo venuti
arrivederci fratello mare
mi porto un po' della tua ghiaia
un po' del tuo sale azzurro
un po' della tua infinità
e un pochino della tua luce
e della tua infelicità.
Ci hai saputo dir molte cose
sul tuo destino di mare
eccoci con un po' più di speranza
eccoci con un po' più di saggezza
e ce ne andiamo come siamo venuti
arrivederci fratello mare.
.