La vita è il mio viaggio. L'amore ne è meta, bagaglio, percorso.



PoesieRacconti

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giovedì 29 aprile 2010

L'UOMO DEI TULIPANI, di Lorenzo Marini


"Stai alla mia vita come il sale sta all'oceano".
Ma lui non sentiva.
La nave era già troppo lontana e loro due potevano solo vedersi.
Due figure precise in mezzo a tante ombre.
"Stai alla mia vita come il sale sta all'oceano".
Le erano fermentate nel cuore tutta la notte, erano rimaste in gola tutto il tempo della partenza, salite alla lingua durante l'ultimo abbraccio. Come sempre, anche questa volta le parole erano rimaste impigliate nella bocca. Assentia sapeva sempre cosa voleva, sapeva benissimo cosa dire, sapeva perfettamente come dirlo, ma si bloccava un attimo prima di parlare. Zitta. Così.
Parlava poco, Assentia, ma quando lo faceva erano perle.
"Stai alla mia vita come il sale sta all'oceano".
Gridato, con tutto il fiato, con tutto il cuore, con tutto il destino avverso, con tutta la disperazione che un'attesa può portare.
[...]
Parlava poco con le parole. Molto con gli occhi.
Le sue frasi d'amore più belle erano lacrime.
[...]
"Stai alla mia vita come il sale sta all'oceano".
Era diventato un urlo contro il cielo, ritornato sul mare, avvolto dalle onde, mangiato dalle acque, conservato negli abissi.
Era la dichiarazione d'amore più tenace che il porto di Amsterdam avesse mai ascoltato.
Era la dichiarazione incontrovertibile della loro unità. Erano fatti l'uno per l'altra. E niente li avrebbe separati.
Era un arrivederci. Certi anni passano come gli attimi.
Era un addio. Certi attimi non passano mai.

"Una storia vissuta quattrocento anni fa
che potrebbe rivivere domani"...

in un libro pieno di poesia, che si ama e non si dimentica.
.

venerdì 16 aprile 2010

IL FU MATTIA PASCAL, Luigi Pirandello

Luigi Pirandello (1867-1936)
premio Nobel per la letteratura nel 1934

Da “Il fu Mattia Pascal”, cap. IX

Ogni oggetto in noi suol trasformarsi secondo le immagini ch’esso evoca e provoca e aggrappa, per così dire, attorno a sé. Certo un oggetto può piacere anche per se stesso, per la diversità delle sensazioni gradevoli che ci suscita in una percezione armoniosa; ma ben più spesso il piacere che un oggetto ci procura non si trova nell’oggetto per se medesimo. La fantasia lo abbellisce cingendolo e quasi irraggiandolo d’immagini care. Né noi lo percepiamo più qual esso è, ma così, quasi animato dalle immagini che suscita in noi e che le nostre abitudini vi associano. Nell’oggetto, insomma, noi amiamo quel che vi mettiamo di noi, l’accordo, l’armonia che stabiliamo tra esso e noi, l’anima che esso acquista per noi soltanto e è formata dai nostri ricordi.

Luigi Pirandello, col suo “Il fu Mattia Pascal” è stato il mio primo grande amore letterario, e come tale non potrà mai essere rimpiazzato nel mio cuore. Certo ho amato altri scrittori e altri romanzi, ma mai allo stesso modo. Mai come con Pirandello ho avvertito, nel leggere, la stessa sintonia coi sentimenti di un autore...

Da “Il fu Mattia Pascal”, cap. II

Siamo o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po’ più di caldo, ora un po’ più di freddo, e per farci morire – spesso con la coscienza d’aver commesso una sequela di piccole sciocchezze – dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente.Oramai noi ci siamo adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico della nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci, ormai le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra poverina stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d’impazienza, e ha sbuffato un po’ di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai così noiosi come adesso. Basta. Parecchie migliaia di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più? Don Eligio Pellegrinotto, mi fa però osservare che, per quanti sforzi facciamo nel crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. Per fortuna, l’uomo si distrae facilmente. […] Sicuro. E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili.


A proposito di Mattia Pascal (o Adriano Meis che dir si voglia)...
guardate che bella questa lezioncina!!


lunedì 12 aprile 2010

L'amore immobile

Algida cima, svettava
in un valzer di petali, appesi
al fiato gelido
del suo sbadiglio stanco

che atterravano mesti, lenti e cauti,
con ticchettio inudibile, incolore.

Lei nel silenzio, impassibile
a spogliare margherite
nell’ombra tersa e leggera
di un azzurro limpido, improbabile

col fare assorto ed austero di chi
non potendo scegliere
pensa che tutti debbano tacere
e per questo, non ascolta.

Lo specchio di Lui
grigio aereo, impenetrabile
scrosciò in pianto incolpevole
rabbioso

e le Sue rughe sputavano, al vento
il sale la schiuma e il rancore
sciogliendo in nulla, il tenue sussurro
di remoti timidi marosi.

Poi l’aria Li avvolse
cerulea, improvvisa.
Smorzò la furia del Mare, vociante
Accese la pace, muta, della Montagna

E nel cielo aperto, si amarono

Lei, e la sua arrivabile quiete
Lui, e i suoi complicati sospiri
Entrambi vivi
Entrambi immobili.
.

mercoledì 7 aprile 2010

All'ombra, Stefano Santarsiere


Ho conosciuto Stefano Santarsiere per caso, qui in rete, nel Dicembre 2008.
Leggendo il suo "All'ombra", racconto tra i finalisti del concorso letterario di Microcosmo Creativo, ho subito pensato che Stefano meritasse di vincere. E anche ora, a distanza di oltre un anno, conservo intatta nel mio cuore l’emozione suscitata in me da quella lettura, quasi come se mi fosse appartenuta.
Oggi voglio condividerla con voi.
Questo brano mi ha colpito per lo stile immediato e al tempo stesso profondamente evocativo, per la sensibilità e la passione che traspaiono da ogni riga, per la capacità dell’autore di trasmettere emozioni ed emozionare. “All’ombra” non è soltanto una storia d’amore, ma anche un invito a riflettere sull’umanità, sullo strazio della guerra, sull’importanza e l’immortalità dei valori semplici e delle piccole cose...

All’ombra.
Una storia d’amore.

Io mi siedo e osservo.
Lo faccio per intervalli lunghissimi. Per ore, per giorni interi.
Mi sistemo la sedia davanti alla porta di casa. Le persone attraversano la strada di fronte a passo veloce o con aria svagata. Se si incontrano si fermano a scambiare due parole. Poi vanno via. Alcuni indugiano all’ombra del vecchio olmo; in questa stagione fa molto caldo.
Si tolgono il cappello e si sventolano la faccia come se oltre al sudore volessero asciugare la fatica. Quella fatica di vivere che io non sento più.
Non fanno caso a me, che osservo. Hanno smesso di prestarmi attenzione anni fa. C’è stato un tempo in cui ero proprio come loro: andavo dappertutto e spesso mi fermavo all’ombra di quest’olmo per riposare un poco. Ogni cosa aveva un aspetto diverso. Le strade correvano sotto i miei piedi come stelle comete. Le facciate delle case, le colline dietro il paese, ogni cosa formava un quadro dinamico e indistinto al quale non gettavo mai uno sguardo in più. Le persone popolavano questo mondo come pesci guizzanti: entravano e uscivano da esso con la rapidità generata dalla mia e dalla loro frenesia.Adesso dipende tutto da loro. Vanno e vengono a proprio gusto, perché io resto fermo a osservare. Sempre. Fin quando gli occhi mi lacrimano e le immagini si accumulano sul mio cuore come foglie secche, soffocandolo.
Mi alzo soltanto per aprire il mio vecchio coltello. Quello con il manico di legno che usavo da ragazzo, al pascolo, per tagliarmi il pane. La lama si è fatta sottile e opaca proprio come la mia faccia. Ma ha ancora la forza di raccogliere la luce in riflessi bruniti. Di radunarla sul filo del taglio. E di trasformarla nel vigore necessario per incidere la corteccia dell’olmo.Piccoli tagli. L’uno di seguito all’altro.
A volte mi concentro sugli anni trascorsi e devo fare uno sforzo per accettare che siano così tanti. Perché ricordo ogni cosa.
Ad esempio il giorno di pentecoste, quando indossavo i pantaloni neri e papà mi portava in chiesa. Il paese era pieno di soffioni, nell’aria un intenso profumo di bella stagione. Credevo che quel mondo, quell’aria, non dovessero mai cambiare. Mai smettere di profumare dei gladioli e delle rose fiorite che la gente metteva alle finestre.Ricordo il giorno che i tuoi occhi si aprirono la prima volta su di me. Quanto tempo era trascorso senza che tu vincessi il pudore di guardarmi davanti a tutti, in chiesa o per la strada. E poi, quel giorno di maggio, il sole diventò due volte più luminoso.
Ero al pascolo, come sempre, quando ti vidi in fondo alla strada col cestino in mano. Così all’improvviso che pensai di sognare.
Venivi a dirmi che eri preoccupata per me, perché era scoppiata la guerra.Ma che importava? Avrebbero potuto scoppiarne mille, di guerre, se ciò serviva a portarti lassù, in quel campo solitario dove trascorrevo i miei giorni a pensarti, a immaginare il tuo volto all’ombra dell’olmo.
Altri tagli. Uno vicino all’altro.
Non avevo mai disprezzato la solitudine. Anzi, trovavo rassicurante passare buona parte della giornata privo di compagnie. Ma dopo quel mattino che sei venuta al pascolo, ogni minuto trascorso senza di te mi risultava insopportabile. Sei stata tu a insegnarmi a osservare. “Che bello il colore del fieno dopo la pioggia,” dicevi. Come se il miracolo di un acquazzone valesse i racconti di cento vangeli. “Guarda come brillano i fiori di pioppo lungo il fiume!”
Prendevo i tuoi inviti a cogliere i particolari del mondo come incentivi a esserti degno. E allora scrutavo ossessivamente ogni cosa che tu mi indicavi: gli steli secchi del campo, la nuvola che spuntava dietro la collina, il ronzio del calabrone. Per ciascun oggetto mi sforzavo di esprimere un commento che fosse all’altezza del tuo entusiasmo, e per facilitarmi il compito, dentro di me pensavo che quella cosa eri tu. Tutti quei particolari diventavano piccoli tesori, cose troppo belle per essere ignorate.
Proprio come te.
E così, gli oggetti che circondavano la nostra solitudine divennero il tramite che ci rese sempre più vicini. In essi si riflettevano i nostri sentimenti, e si amplificavano i desideri che non osavamo confessare.
Ricordo la sorpresa che provai quando mi rivelasti che il terreno di fianco al pascolo apparteneva alla tua famiglia. Proprio lì avremmo costruito la nostra casa dopo il matrimonio. A tre metri dall’olmo.
Altri tagli.
Con il mio vecchio coltello.
La speranza che il mondo non dovesse mai cambiare sembrava resistere anche nei primi anni della guerra. Di quel dolore così immane che era calato sull’umanità, in paese sentivamo solo un’eco lontana, portata dai racconti dei reduci o dalla mitologia di chi possedeva una radio in casa. Ma l’aria profumava meno. La povertà ingrandiva gli occhi delle persone, e in essi si manifestava il timore verso il futuro.
Lo stesso timore che vidi esplodere nei tuoi quando un anno dopo giunse la lettera.Di nuovo tagli.
Di nuovo.
Ecco, amore mio. Non devi dubitare di noi. Mi hai accompagnato in ogni strada che ho percorso. Ho amato te, e per il tuo tramite ho amato la vita anche nel buio e nel freddo. In silenzio mi bastava stringere una mano per sentire il calore delle tue dita.
Tu ci sei ancora. A volte esci di casa e mi passi davanti, gravata dai decenni in cui hai conservato il ricordo, specchiandolo in una fotografia scattata un’ora prima che partissi per il fronte. E non hai mai tolto gli abiti neri.
Ma la verità è in questo luogo, proprio davanti alla nostra casa. Nel tronco del nostro caro olmo. Ed è in esso che voglio scriverla a te, e al mondo in cui ancora sei, incidendo l’ultimo taglio con il mio vecchio coltello:
‘Io sono sempre stato qui.’

Stefano Santarsiere, nato il 21 luglio 1974, vive e lavora a Bologna.
Ha sostenuto il suo apprendistato sui classici della letteratura, soprattutto i romanzi francesi e russi, e sulle grandi opere del fantastico e del gotico. Ha altresì sfiorato diversi mondi letterari, come la letteratura nordamericana o il realismo magico, senza trascurare i capisaldi italiani e meridionali. Il genere che tuttavia preferisce è il noir, che nelle sue attuali e innumerevoli versioni sembra il più adatto a rappresentare paure e miserie umane.
Le sue pubblicazioni:
L’arte di Khem (romanzo, Edizioni Pendragon, 2005)
La cirasa (racconto, in “Tutto il nero dell’Italia”, Noubs Edizioni, 2007)
Soluzione finale (racconto, in “GialloScacchi-racconti di sangue e di mistero, Edizioni Ediscere, 2008)
All’ombra (racconto, in “Pascoli è precario”, Edizioni Bohumil, 2008)
.

giovedì 1 aprile 2010

In un tempo calmo, Maria Gervasio


Da "Sono così fragili le menti"

(della raccolta "In un tempo calmo" di Maria Gervasio, Bohumil Edizioni)

http://www.bohumil.it/gervasio.htm

(...)
abbiamo retto momenti peggiori
abbiamo atteso, piano
che si attutissero i rumori di fuori
quel sordo tonfo a volte
ma ci si abitua a tutto si dice
e come è vero
alla cenere di più che non al fuoco acceso e caldo
(...)

Un gioiello prezioso, la poesia di Maria Gervasio.

Nella misura di canto che mantiene sempre, la poesia della Gervasio non si risparmia, né risparmia quel che incontra e che non si conforma a un'idea, un ideale alto e esigente nei confronti del mondo, e di chi ci vive. (...) Una poesia tanto leggibile quanto profonda, tanto cantabile nel ritmo quanto petrosa nell'asprezza di certi passaggi.”
(cit. presentazione della raccolta “In un tempo calmo”, Bohumil Edizioni, marzo 2007)
.
Che dire? ... concordo!
.
Sono così fragili le menti
i corpi così confusi
nei giorni di pioggia obliqua contro i muri
ci fermiamo ad osservare
la terra che si fa pesante
assorbe acqua,
in un tempo fermo
di ombrelli sgocciolanti
di scarpe sporche e segatura
che si appiccica alle suole
che si sparge ovunque sulla strada,
ogni volta ti guardo
guardo che ti lascio andare
.
mia bella signora, meraviglia
schiudi per me la bocca
fammi sentire il fiato
il respiro umido
lasciati guardare,
il lupo della Sila se t'incontra
si sdraia come un cucciolo e ti guarda
tu gli sorridi, giochi
e il mio corpo si ferma per salvarsi
.
un suono basso accompagna i pomeriggi
dopo un po' quasi non lo si sente
un unico tamburo batte cupo il tempo
scandisce il ritmo guida le fila
siamo in molti qui fuori a chiederci le cose
.
eppure un giorno ci hanno sfiorato le orecchie
perché potessimo sentire, e la bocca
perché imparassimo a parlare a dire
e si pregava a mani aperte
come a raccogliere acqua da una fonte
.
qualcuno mi dirà come dovremo fare
ancora mi addormento a pugni chiusi
le ginocchia piegate contro il ventre
.
ma non passa più di qui il tamburino
che torna dalla guerra
con la divisa e le mostrine sporche
guida la marcia dei soldati feriti stanchi
batte il passo ai fantasmi
.
se lo vedessimo passare
se solo smettesse di piovere
e questo battere continuo di tamburi
se smettesse
adesso
.
dietro le grate di un manicomio chiuso
qualcuno chiede se siamo in molti qui, fuori
rispondo che sì che siamo tanti
che eravamo felici
venivi ogni volta a cercarmi e mi seguivi
ma avevi gambe pesanti
e tutti gli anni addosso a rallentarti il passo
e io correvo
.
abbiamo retto momenti peggiori
abbiamo atteso, piano
che si attutissero i rumori di fuori
quel sordo tonfo a volte
ma ci si abitua a tutto si dice
e come è vero
alla cenere di più che non al fuoco acceso e caldo
a questa polvere ovunque sulle cose
che ora entra negli occhi senza dar fastidio
senza nemmeno un battito di ciglia
appena sopra un cuore freddo
se il tempo del lavoro è lungo
è anestesia
se il tempo dell'amore e del coraggio non importa
e il resto accade altrove
se non sono io
.
Bologna delle cinque, buia
e la stanchezza
un tardo autunno nella piazza
adagio i passi, lenti
in tempo per respiri lunghi
ora non piove è quasi nebbia
l'aria di un sospiro è quasi fumo
l'umido entra in gola e tra i capelli
ma un drago enorme e bianco appare e danza
di pura luce si alza e tende il collo
oh meraviglia!
si china fino a terra e poi ancora e sale
la musica dei saltimbanchi sul sagrato
gli acrobati sui trampoli
i costumi colorati, i cani
i cani che lo seguono annusando
affamati abbaiano alla strada, al drago
che si alza bianco
bianco contro il cielo.
.