Non ha ancora sei anni, la mia nipotina, e più di una volta mi ha già lasciata senza parole.
Mi spiazzano sempre la semplicità e il candore con cui mi porta a sprofondare nell’abisso dei suoi dubbi, che per la sua età mi sembrano fin troppo gravi e profondi.
Non so se lo faccia consapevolmente o no. Quel che è certo è che anche stavolta mi ha colta impreparata. Lei si aspettava una risposta, di sicuro, ma io non glie l’ho data.
«Quale guerra, tesoro? Siamo in pace, grazie a Dio... » ero lì per dirle.
Ma poi in un attimo ho realizzato il perché del suo dubbio: la sua vita in città nella consuetudine del coprifuoco, l’abitudine di aggirare a tutti i costi le zone calde, la normalità di dover sopportare l’ombra scura e pesante della montagna di paure, troppe, che affliggono sua madre. Paure che, oggi del tutto giustificate, non hanno mai neppure sfiorato le peggiori fantasie dei miei genitori, che ai tempi dovevano scontrarsi con preoccupazioni di tutt’altra risma.
Crescere dei bambini, quando ero piccola io, era altrettanto impegnativo, certamente. Ma per lo più si trattava di questioni pragmatiche e contingenti, per certi versi più semplici da affrontare, e spesso risolvibili senza addossarne il peso ai figli.
Così invece di rispondere l’ho presa sulle ginocchia, l’ho stretta forte al petto e poi, con gli occhi chiusi, ho cominciato il mio racconto.
Mia madre era, a detta di tutti in paese, una perfetta donna di Chiesa.
E questo non significava, almeno dalle nostre parti, essere una moralista bigotta ambiziosa e ruffiana. Voleva dire piuttosto, con espressione sintetica e inequivocabile, avere una vita perfetta, irreprensibile, come una sfera di vetro: solida, impeccabile, trasparente. Non era cosa da poco, e quindi non era frase per molti.
Era una definizione breve e semplice, che oggi potrebbe anche apparire leggera. Eppure allora pesava, e valeva più rispettabilità di quanta spettasse a tante signore, che brillavano solo per lo splendore della culla avuta in sorte, o per i privilegi del giovane ricco scapestrato che ne aveva accolto la dote.
Con quella definizione la gente diceva tutto di mia madre. Lo diceva chiaramente, e nell’unico modo in grado di renderle veramente giustizia. Perché riuscendo a intrappolare in poche parole semplici la sua esemplare rettitudine, ne svelava le molteplici ammirevoli virtù. Neppure così nascoste, e anzi piuttosto evidenti, e invidiabili. Soprattutto in un’epoca incerta e ambigua che, appena sfiorata dai nuovi miti che si potevano intravedere all’orizzonte, già si crogiolava nell’ipocrita rimpianto di ruoli e consuetudini obsoleti, ormai considerati faticosi e scomodi.
Mia madre è sempre stata una moglie onesta e premurosa. Tanto abile nel risparmiare, amministrare e impiegare in maniera oculata i beni di famiglia, quanto nel suo ruolo di mamma attenta ed affettuosa. E non ultimo, anche se il suo essere “di Chiesa” non voleva certo significare solo questo, nelle sue incombenze di donna cattolica osservante e praticante.
«... ad andare in Chiesa, e a far del bene, ci si guadagna sempre».
Non si stancava di ripeterlo, come un ritornello; rivolgendosi ai miei fratelli, prima che a me. Perché erano solo loro, già grandicelli, a lamentarsi di quel corteo in pompa magna, tutti puliti pettinati e agghindati, al quale eravamo chiamati ogni Domenica mattina per la Messa.
A me invece piaceva quel rito, e poi adoravo la Domenica. Quell’unica giornata di sfarzo ostentato ed apparente benessere, per noi che in settimana non navigavamo certo nel lusso.
Mi divertivo a marciare verso la Chiesa, diligente ed elegante nelle mie scarpette di vernice; attenta a seguire il ritmo vivace delle campane in festa. Mi piaceva immergermi in quella penombra silenziosa impregnata di incenso, dove potevo ascoltare i miei passi risuonare leggeri fino a perdersi negli ultimi rintocchi. Amavo entrare piano, con i modi gentili e aggraziati presi in prestito per un giorno dal mio bel vestitino, e con eleganza sedere al mio solito posto sulla nostra panca a destra dell’altare, tra le prime file. Dove, immersa nel brusio silenzioso dei miei pensieri, fingevo di assistere attenta alla funzione.
La nostra panca era la più bella. Non troppo vicina, né troppo lontana dal pulpito da cui il prete predicava. Era la nostra da sempre, a mia memoria; non perché fosse veramente a noi riservata, come allora credevo, ma perché eravamo sempre tra i primi a entrare.
Col tempo ho compreso quanto fosse importante, per mia madre, accaparrarsi quel posto. E perché al ricorrente scettico quesito « ... e cosa ci ricaviamo noi, ad andare in Chiesa?» con cui i miei fratelli erano soliti ribattere all’odioso ritornello ripetuto ogni Domenica, lei, con l’espressione più seria del mondo e il dito indice rivolto al cielo, non mancasse di replicare: « ... di assicurarvi, con poca fatica e nessuna spesa, un posto in prima fila. In Paradiso, e ovunque ».
Col tempo ho anche capito perché lo dicesse proprio in quel modo, al tempo stesso solenne e distratto. Con l’aria paziente e imperturbabile di chi sa di non dover convincere proprio nessuno, perché sta soltanto per ribadire un’ovvietà. A tutti da tempo ben nota, indiscutibile.
Mio padre aveva ereditato dal nonno un antro oscuro in centro paese, la bottega del maniscalco; e là se ne stava rinchiuso dall’alba al tramonto, da sempre a mia memoria, ad esercitare in segreto la sua misteriosa alchimia. Era quasi una seconda casa per lui quel piccolo tugurio, tanto lo amava e lo curava. Era il suo nido, il suo rifugio, il suo orgoglio; la dimora ideale per la sua riguardevole professione.
Se solo i tempi fossero stati diversi. Se solo i tempi non avessero avuto tutta quella smania di galoppare, bruciando troppo in fretta le tappe di un progresso inatteso, straniero e ostile. Un progresso che, nella sua agile corsa a briglie sciolte, stava lasciando indietro i poveri muli, i vecchi buoi, i loro campi. E, assieme a loro, gli ormai inutili maniscalchi.
Dovette staccarsi un pezzetto di cuore, lo so, per vendere la bottega. E poi un altro, per chiudere a forza quella vecchia valigia marrone che a momenti scoppiava, e portarsela a Milano con i suoi pochi stracci, il suo bell’abito nuovo con la cravatta in tinta e le scarpe appena lucidate.
Con i bagagli in mano, e quel che ancora restava del suo cuore ben immorsato in petto, mio padre partì. Per quanto tempo, non si sapeva. Mamma mi disse, però, che non dovevo esser triste; che il papà sarebbe stato bene, là dove andava. Che avrebbe portato vantaggi a noi tutti, il fatto che lui avesse lasciato la bottega; perché, prima di partire, aveva scambiato la sua vecchia incudine malandata e rugginosa con una nuova, massiccia e fiammante catena di montaggio.
Furono sei anni, ora lo posso dire. Ventiquattro stagioni di vedovanza bianca, per la mamma, che in tutto quel tempo riuscì ad accudire noi tre figli con affetto raddoppiato. E intanto si dava il suo bel da fare ad arrotondare lo stipendio che papà ci mandava ogni fine mese aggiustando orli, cappotti e camicette.
A Milano papà abitava nella soffitta di un certo cugino Vincenzo, che aveva un bel trilocale in centro e lì viveva con la moglie e i due figli. Papà raccontava che il cugino Vincenzo, che a suo tempo era stato un giovane Balilla, fosse solito mostrare come un trofeo la mano sinistra ferita da una scheggia. Trofeo che, a ricordo indelebile degli anni del conflitto, aveva conquistato a Potenza, dove allora studiava, durante il bombardamento avvenuto proprio nel giorno dell’armistizio. Finita la guerra, Vincenzo aveva lasciato i suoi vecchi a Stigliano, e a Milano si era sistemato entrando nell’azienda del suocero. A trentasette anni ancora da compiere, poteva finalmente stringere tra le mani la quietanza dell’ultima rata di mutuo e dichiarare, con una fierezza ormai libera di qualsiasi ombra di campanilismo, di essere diventato un milanese a tutti gli effetti.
Riuscivamo a vedere papà a Natale, a Pasqua, e una decina di giorni a Ferragosto. Poi c’erano brevi telefonate che potevamo ricevere, ogni sabato pomeriggio, da un apparecchio della sede comunale. Uno speciale privilegio concesso alla mamma per intercessione parrocchiale; e anche un piccolo passo, il primo, verso la sua meritatissima tribuna d’onore.
Il secondo fu un salto acrobatico, più che un semplice passo.
Un venerdì sera la mamma, tornando raggiante dal Vespro, ci disse che presto anche noi saremmo partiti.
Quella stessa afosa, nebbiosa, odiata e amata Milano, dove da sei anni papà viveva in una soffitta umida e buia... la favolosa metropoli infinita, coi suoi mille enormi palazzi, che in tante fantasticherie avevo visto sorgere e splendere e che poi, crudelmente, in un attimo avevo disfatto... a breve sarebbe stata anche nostra. La nostra città. A Milano avremmo avuto una casa nuova, bellissima, creata su misura per noi. Per noi cinque riuniti, una volta tanto, per sempre.
Così, in un rovente giorno dell’agosto del ’61, con mio padre a casa per le ferie estive, tutti insieme lasciammo il paesello alla volta di un’opportunità meravigliosa e insperata. A bordo di una scattante Seicento, nuova di pacca.
Il nostro vecchio parroco, tramite certe sue conoscenze che per vie tortuose arrivavano fino all’allora presidente dell’ENI, Enrico Mattei, aveva aiutato papà a ottenere un posto al Palazzo di Vetro, a San Donato Milanese. Con il nuovo lavoro era arrivata anche una bella casa aziendale, cosa davvero incredibile per mio padre, abituato da sempre a conquistarsi tutto con il sudore della fronte; e una borsa di studio per mio fratello, che di lì a poco avrebbe iniziato a frequentare la scuola di formazione e poi sarebbe entrato anche lui nella grande famiglia del petrolio. Mia sorella entrò come bidella alle scuole elementari, e io fui iscritta ad una rinomata scuola milanese.
A San Donato avevamo un grazioso appartamento, ben riscaldato d’inverno e arioso d’estate. Settanta metri quadri nel nuovissimo complesso residenziale di Metanopoli, dove presto sperimentammo i vantaggi di avere un frigorifero e una cucina a gas. E poi, poco più tardi, anche una rumorosa lavatrice, sistemata in cucina accanto a un tanto ingombrante quanto fantastico televisore.
Ricordo con piacere quegli anni, quasi felici.
Finalmente riuniti, vivevamo agiati come mai avremmo potuto sperare. Per la soddisfazione piena, forse, ci mancava solo di essere al paesello. Per salutare, al mattino, la nostra gente; e la sera respirare le sue stradine semideserte. E poi sedere in Chiesa, la Domenica, sulla nostra bella panca che avevamo lasciato là, vuota, tra le prime file.
Mamma frequentava Santa Barbara, insieme ad altre brave donne come lei, che spesso le procuravano qualche lavoretto di sartoria da fare a tempo perso; e lei lo faceva volentieri, abituata com’era ad arrotondare. Mio fratello finì la scuola e iniziò a lavorare, mia sorella continuò a fare la bidella, e nel frattempo si trovò un fidanzato. Io frequentai il ginnasio, poi il liceo.
Furono anni sereni per la mia famiglia. Anche se intorno a noi, oltre il calduccio tranquillo di casa nostra, c’era un fuoco irrequieto che scalpitava e scoppiettava.
Lo sapevamo bene, lo sapevano tutti. Eppure eravamo in molti a fingere di non accorgerci di nulla.
Molti, specie fra quelli come noi, come mio padre e mia madre soprattutto, che tanto avevano sgomitato e faticato per godersi il palcoscenico dalla tribuna, si accontentavano di assistere giorno dopo giorno all’ennesima messa in scena. Mai e poi mai avrebbero spiato dietro le quinte. Si sarebbero tappati le orecchie, di quando in quando, per coprire i rumori molesti; e sarebbero rimasti lì, pacifici, ad aspettare seduti. Ad attendere quieti, quanto meno, la fine del primo atto.
Così in quei nostri primi anni milanesi, che per l’Italia furono infuocati, la politica non varcò mai la soglia di casa nostra. Dopo cena guardavamo insieme il telegiornale, ma i commenti erano pochi, e per lo più si trattava di battute di intenzione spiritosa che mio padre scambiava con mio fratello; poi, riuniti intorno al tavolo, ci raccontavamo la giornata sul sottofondo del Carosello.
Spesso papà ci osservava in silenzio, l’aria vagamente compiaciuta: tre figli già grandi e una moglie devota, ancora giovane e graziosa. Lo sorprendevo, così assorto, e lui mi sorrideva dalla sua poltrona in similpelle. Allora comprendevo quanto si sentisse fiero della nostra famiglia e della nostra nuova vita. Il resto poco importava.
Ma un giorno anche noi, e quelli come noi, avremmo dovuto distrarci dal tepore di quella morbida quiete domestica. Colpa di un gran rumore, intollerabile, che nessuno riuscì a ignorare. Un baccano furioso che impiegò molto a quietarsi; e forse non riuscì mai a spegnersi del tutto se ancora oggi, talvolta, risuona greve nella memoria italiana.
Lo sentirono subito tutti, indistintamente. I più consapevoli, che lo attendevano, e quelli che neppure potevano concepirlo, un tale putiferio; anche se, a onor del vero, non era stato affatto improvviso.
Lo percepimmo anche noi, purtroppo; e il solo sentirlo infranse per sempre la pace ingenua della nostra comoda tribuna.
Scosse anche me, tutto quel clamore; che pure ero rimasta sorda, fino allora, anche al grido energico di tanti miei coetanei, che in quegli anni cantavano “Dio è morto” e “Yellow submarine”. Anche me che fino a quel momento non avevo notato, o non avevo voluto capire, che qualcosa stava cambiando.
Era il 12 Dicembre del 1969, il giorno dei morti incolpevoli di Piazza Fontana.
Da qualche tempo bazzicavo alla Statale, frequentazione che allargava le mie speranze e i miei orizzonti facendomi sperimentare nuove amicizie, nuovi interessi, nuove libertà. Avevo una cara amica di Lodi, allora, si chiamava Angela; e con lei avevo organizzato per quel venerdì un pomeriggio di shopping milanese.
Quel giorno ci ero andata in macchina, a Milano; con mia madre, mia sorella Agnese, e il suo fidanzato alla guida della “sua rossa”, una splendente Mini-Minor.
Mi lasciarono alle tre del pomeriggio in Largo Augusto, dove avremmo dovuto ritrovarci tre ore più tardi per rincasare. Loro invece si avviarono in auto all’Ospedale Maggiore, per incontrare un vecchio amico del cugino Vincenzo che era anche un luminare della medicina: l’ennesima visita per Agnese che, da qualche tempo, ci faceva preoccupare con strani malesseri ricorrenti.
Faceva freddo e pioveva, quel pomeriggio; un piovasco fine e insistente. Quasi che il grigio compatto e non insolito del cielo cittadino volesse per una volta sciogliersi. Lentamente, dolcemente; accarezzando i tetti e i passanti che, almeno quel giorno, sembravano più allegri che frettolosi.
Attesi la mia amica forse un quarto d’ora, rannicchiata nel mio cappotto, e avvolta dall’ombra scarlatta di un ombrellino nuovo. Si respirava un’aria gelida ma festosa, perché sulle strade, scintillanti di pioggia, il riflesso delle luminarie natalizie riusciva a cancellare del tutto la noia di quel clima uggioso.
Poi Angela arrivò, la pioggia si fece quasi invisibile e fra noi aleggiarono i refoli nebbiosi delle nostre chiacchiere spensierate.
Fu un pomeriggio divertente, forse l’ultimo per me così leggero. Ché a diciannove anni, alla fine, dovetti perderla anch’io, la mia beata innocenza.
Erano passate da poco le cinque, quando l’onda delle voci sul disastro ci raggiunse avanzando a forza di rimbalzi tra le vetrine. Uno scoppio, forse una caldaia. Un’esplosione alla banca, in Piazza Fontana. E noi, che già stavamo andando in quella direzione, ci ritrovammo quasi a correre, confuse. Come sospese a metà tra paura e stupore, e dimentiche dei recenti acquisti, delle risate ancora fresche, del prossimo Natale.
Correvamo soltanto, come facevano tutti. E intanto dal basso, sotto il rumore del traffico impazzito, emergeva un sibilo veloce di sirene, che cresceva e si moltiplicava; come il numero delle ambulanze, che vedevamo accorrere a frotte sul luogo dell’incidente, a prestare soccorso a quei poveri malcapitati che, per un crudele scherzo del destino, si erano trovati proprio in quel momento sul luogo dell’esplosione.
E pensare che piazza Fontana, e la banca del disastro, erano così poco distanti da quell’angolo di marciapiede dove io, stretta nel mio cappotto, avevo atteso Angela solo due ore prima!
Una tragedia non è tale, se la senti solo raccontare. Non riesce a spremerti il cuore, a graffiarti l’anima, a galoppare indomita sui tuoi pensieri. Calpestandoli spietata, fino a spappolarli; come fa il pestello con l’aglio, nel mortaio. Una tragedia non lo fa, se non la vedi da vicino. Se non la ascolti sussurrare, se non ne respiri gli ultimi rantoli rauchi di dolore.
Ma io c’ero, quel giorno. Io quella tragedia l’ho vista, ascoltata, respirata.
In quegli attimi assurdi io ero là, a curiosare da lontano come tanti. Di quella tragedia ho accolto le ombre nei miei occhi increduli, ed erano ombre indecifrabili, disordinate. Di quella tragedia ho ascoltato l’affanno rumoroso, un respiro pesante che un attimo soffiava e l’attimo dopo si era già solidificato: una lacrima su un volto, un pezzo di vetro sul selciato; a luccicare nell’aria umida, accanto a dove poco prima aveva luccicato il riflesso delle luminarie natalizie. Di quella sciagura ho respirato l’alito, coi miei polmoni; e inspirandolo ho ingoiato paura, amaro, sconforto. Dolore per quelle persone, finite per caso in un inferno, e per i loro cari che inutilmente li avrebbero attesi a casa per cena. Espirando invece liberavo il mio sollievo egoista per non esser stata lì al momento sbagliato.
Solo più tardi si seppe con certezza cos’era successo, e fu una certezza terribile.
Era scoppiata una bomba, altro che caldaia!
C’erano state altre esplosioni, prima, e altri morti innocenti. Sciagure lontane, che a malapena mi avevano appena sfiorato. Quella bomba invece mi lacerò il petto. E io per ricucirlo pensai così: che una tragedia non è tale se la senti solo raccontare. Non può essere tale se non la vedi, senti, respiri.
Forse però non era solo quello.
Quella bomba aveva sconvolto tutti, come mai era successo fino allora. E lo si vide nei giorni seguenti, quando l’intera Milano strinse le vittime in un lungo, toccante abbraccio; e salutò commossa il corteo funebre che dall’Obitorio di piazzale Gorini sfilava verso la cattedrale.
Quella bomba non era stata la prima, certo. Ma non era neanche una delle tante.
Quella bomba divenne, la prima. Poiché con essa, quel giorno, iniziò una guerra.
Una guerra subdola perché invisibile, ai più. Un conflitto nascosto e sottile che poi, un giorno, qualcuno sentì il dovere di battezzare “strategia della tensione”.
Chi più chi meno, quella guerra, se la portava dentro al cuore; nei suoi progetti, nelle sue incertezze.
C’era chi voleva affrontarla combattendo in prima linea, in modo pacifico o violento. C’era chi preferiva aspettare in disparte, forse più per rassegnazione che per fiducia. Poi c’era chi, come me, la tensione ce l’aveva sulla pelle, e avrebbe soltanto voluto scrollarsela di dosso. E invece continuava a respirarla, giorno dopo giorno, in quella pesante e inesorabile apprensione che ormai aveva impregnato l’aria; nauseante, persistente, come l’odore del fritto.
C’era guerra, là fuori. Una guerra che sarebbe stata lunga e dolorosa, e che avrebbe fatto altre vittime innocenti. Senza creare eroi, né vincitori. Solo vinti.
Ma per noi cinque, la mia famiglia, quel giorno la guerra era scoppiata anche dentro.
Erano guerra le pene quotidiane di Agnese, che quella sera di quel maledetto 12 Dicembre aveva portato a casa con sé anche un nome impronunciabile per la sua misteriosa malattia. Era guerra il pianto di mia madre che, di fronte alle sofferenze attuali e prevedibili per la figlia, aveva perso tutta la sua forza, il suo coraggio, la speranza. Erano guerra le violente discussioni tra mio padre e mio fratello. Liti che mai avrei potuto immaginare tra quei due uomini così quieti, così uguali in tutto, uno soltanto un po’ più giovane.
Era guerra, nel mio cuore, il dispiacere sincero per Agnese. L’ansia per le divergenze irrisolvibili tra mio fratello e mio padre. Il tormento per gli spettri dipinti negli occhi di mia madre. Per la sua angoscia che sapevo incurabile, e che vedevo mescolata a lacrime mal trattenute.
C’erano periodi buoni, in cui la Storia là fuori tornava a scorrere limpida e tranquilla, o almeno così sembrava. E periodi meno buoni, in cui qualcosa affiorava in superficie a ricordarci che c’era del torbido, qua e là, e noi eravamo in mezzo a galleggiare in qualche modo.
C’erano periodi buoni per Agnese, che andava a lavorare, a casa aiutava mamma nelle faccende, e la Domenica usciva con il fidanzato. E periodi cattivi, quando il suo male risvegliandosi l’attaccava pungente, a ricordarle che c’era ancora e non la mollava.
C’erano periodi buoni per noi cinque, in cui la sera ascoltavamo il TG tutti insieme, ormai senza battute ma sereni, e dopo cena ci raccontavamo la giornata intorno al tavolo, sul sottofondo del Carosello. Poi c’erano periodi di nervosismo e paura, quando mio fratello, che in seguito ai fatti e ai risvolti di Piazza Fontana aveva preso a frequentare alcuni simpatizzanti anarchici, se ne andava a sbandierare striscioni, a urlare, a marciare nei cortei dei sovversivi. Dimenticando nostra sorella malata, che viveva ogni giorno nel timore del suo male. Senza pensare a nostra madre, che da quando aveva imparato a piangere non riusciva più a smettere, e che a causa sua doveva affliggersi, oltre che per il triste destino di Agnese, anche per il promettente futuro che lui così facendo avrebbe distrutto. Senza pensare a nostro padre, che non lo aveva educato a questo e che tanto soffriva per la sua passione ribelle. Senza pensare a me, che dovevo assistere impotente ai loro litigi mentre mia madre piangendo li implorava di smettere.
Due guerre erano state già troppe, per lei. Era sopravvissuta al fascismo, ai bombardamenti, alla povertà. Aveva vinto la solitudine dei suoi sei anni di vedovanza bianca. Era ancora forte, nonostante tutto, e sapevo che neppure quella guerra l’avrebbe uccisa, ma corrosa quello sì. Lentamente, da dentro.
Era la terza guerra, per lei.
La terza guerra, anche per l’Italia.
Terminata la storia ho riaperto gli occhi, piano. Poi con cautela ho cercato quelli della mia nipotina.
Eccolo lì. Tondo tondo, era arrivato: un altro dubbio nel suo sguardo. Profondo, irrisolto, scuro come un pozzo vuoto.
E così, alla fine del racconto, è giunta puntuale la nuova domanda, proprio quella che mi aspettavo.
«E allora, nonna... oggi a che quota siamo?».