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A volte nella vita alcune circostanze sembrano volerti riportare, occhi memoria e cuore, fra le pagine di un vecchio libro. Come se come la realtà, spingendo a galla antichi ricordi, volesse a tutti i costi catapultarti negli anfratti più sinuosi e nascosti di righe già lette, eppure forse non del tutto scoperte. Righe che, una volta afferrate, subito ti avvincono, ti incatenano e ti fanno rimbalzare, a suon di parole, tra il sapore acceso del presente e il profumo un po' sbiadito, ma comunque indelebile, del tuo passato.
Io trovo che spesso la rilettura sia una rivelazione.
Riprendere in mano un libro per me è illuminante, soprattutto se l'ho amato al primo incontro; e tanto più illuminante quanto più questo primo incontro si colloca lontano nel tempo.
Mi accade di rivalutare personaggi, fatti e circostanze della storia che in prima battuta avevo considerato poco rilevanti. Mi rendo conto di essere meno severa nei giudizi, più comprensiva e indulgente nei confronti degli errori e debolezze dei protagonisti.
Raramente mi emozionano in egual misura le stesse frasi. E' più probabile che invece ne scopra ed apprezzi maggiormente altre, che nuove immagini e sensazioni prendano forma nella mia mente insinuandosi accanto a quelle consuete, colorando di nuove tinte la moviola dell'immaginario nato in me al primo approccio. E questo ravvivare, rinnovandola, la memoria del libro, dall'odore delle pagine ai contenuti, dalla consistenza della carta ai pensieri evocati, arricchisce e impreziosisce il frutto della lettura.
E tuttavia ciò che più mi affascina in una rilettura non è tanto, o almeno non solo, il cogliere nuovi aspetti, sfumature e significati del romanzo, cosa già di per sé piuttosto interessante. Ma piuttosto lo scoprire, o riscoprire, quanto e come la vita sia stata in grado di cambiarmi nel modo di essere e sentire, nel periodo che separa l'oggi dal primo "incontro", e cosa il tempo e l'esperienza abbiano voluto insegnarmi.
E l'accorgermi ogni volta, dopo tutto, che anche se gli anni corrono, il tempo dà e prende, le intemperie arrivano e passano e andando via magari si lasciano dietro qualche spigolo rotto o smussato... in fondo certe cose non cambiano, e non cambieranno mai.
E voi cosa pensate della rilettura?
"Minestra riscaldata" oppure nuova, emozionante esperienza?
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Fermina Daza era in cucina ad assaggiare la minestra per la cena, quando udì il grido di orrore di Digna Pardo e il baccano della servitù e poi quello del vicinato. Buttò via il cucchiaio per assaggiare e cercò di correre come poteva col peso invincibile della sua età, gridando come una pazza pur senza sapere ancora cosa stava accadendo sotto le fronde del mango, e il cuore le si frantumò quando vide il suo uomo supino nel fango, già morto in vita, ma che resisteva ancora un ultimo minuto al colpo di coda della morte affinché lei avesse il tempo di arrivare. Riuscì a riconoscerla nel tumulto attraverso le lacrime del dolore irripetibile di morirsene senza di lei e la guardò per l’ultima volta per sempre con gli occhi più luminosi, più tristi e riconoscenti che lei gli avesse mai visto in mezzo secolo di vita in comune, e riuscì a dirle con l’ultimo respiro:
«Solo Dio sa quanto ti ho amata.»
[...]
Prima che chiudessero la bara, Fermina Daza si tolse l’anello matrimoniale e lo infilò al marito morto, e poi gli coprì la mano con la sua, come aveva sempre fatto quando l’aveva colto a divagare in pubblico.
«Ci vedremo molto presto» gli disse.
Florentino Ariza, invisibile nella folla di notabili, sentì una lancia nel costato.
[...]
Fermina Daza salutò la maggior parte della gente vicino all’altare, ma accompagnò l’ultimo gruppo di amici intimi sino alla porta sulla strada, per chiuderla lei stessa, come aveva sempre fatto. Stava per farlo con l’ultimo fiato che le rimaneva, quando vide Florentino Ariza vestito a lutto in mezzo alla sala deserta. Se ne rallegrò, perché da molti anni l’aveva cancellato dalla sua vita, ed era la prima volta che lo vedeva con la coscienza purificata dall’oblio. Ma prima di poterlo ringraziare per la visita, lui si appoggiò il cappello sul punto del cuore, tremulo e dignitoso, e fece scoppiare l’ascesso che era stato il sostentamento della sua vita.
«Fermina» le disse «ho atteso questa occasione per oltre mezzo secolo, e adesso voglio ripeterle ancora una volta il giuramento della mia fedeltà eterna e il mio amore perenne.»
Fermina Daza si sarebbe creduta davanti a un pazzo, se non avesse avuto motivo per pensare che in quell’istante Florentino Ariza era ispirato dalla grazia dello Spirito Santo. Il suo impulso immediato fu di maledirlo per la profanazione della casa quando era ancora caldo nella tomba il cadavere del marito. Ma glielo impedì la dignità della rabbia. «Vattene» gli disse. «E non farti mai più vedere negli anni di vita che ti rimangono.» Rispalancò la porta che aveva cominciato a chiudere, e concluse: «Che spero siano molto pochi.»
Quando udì spegnersi il rumore dei passi nella via solitaria, chiuse la porta molto piano, con la spranga e i catenacci, e affrontò da sola il suo destino. Mai, fino a quel momento, aveva avuto una consapevolezza piena del peso e della grandezza del dramma che lei stessa aveva provocato quando aveva appena diciotto anni, e che l’avrebbe perseguitata fino alla morte. Pianse per la prima volta dopo il pomeriggio del disastro, senza testimoni, che era il suo unico modo di piangere. Pianse per la morte del marito, per la sua solitudine e la sua rabbia, e quando entrò nella camera da letto vuota pianse per se stessa, perché molto di rado aveva dormito sola in quel letto da quando non era più vergine. Tutto quello che era stato del marito le assecondava il pianto: le pantofole di nappa, il pigiama sotto il guanciale, lo spazio senza di lui nella specchiera della toeletta, il suo odore sulla propia pelle. La fece rabbrividire un pensiero vago: “La gente che si ama dovrebbe morire con tutte le sue cose”. Non volle aiuto da nessuno per coricarsi, non volle mangiare nulla prima di dormire. Oppressa dal dolore, chiese a Dio di inviarle la morte quella notte stessa durante il sonno, e con questa illusione si coricò, scalza ma vestita, e si addormentò subito. Dormì senza saperlo, ma sapendo che continuava a essere viva nel sonno, che metà del letto era di troppo, e che giaceva di fianco sul bordo sinistro, come sempre, ma che le mancava il contrappeso dell’altro corpo dall’altra parte. Pensando addormentata pensò che non avrebbe mai più potuto dormire così, e cominciò a singhiozzare nel sonno, e dormì singhiozzando senza cambiare posizione nella sua parte, fino a molto dopo che ebbero finito di cantare i galli e la svegliò il sole indesiderabile del mattino senza di lui. Solo allora si rese conto di avere dormito molto senza morire, singhiozzando nel sonno, e mentre dormiva singhiozzando di avere pensato più a Florentino Ariza che al marito morto.
.da "L'amore ai tempi del colera", Gabriel Garcìa Màrquez
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