Dedicato a tutti quelli che sognano di partire, a quelli che sono già partiti e, perchè no, anche a quelli che non partiranno mai.
L’alba svolse il suo mantello perlato, e lievemente lo stese su alberi, case, strade.
Carezzò piano la ragazza che, seguendo orme invisibili, era giunta in stazione. Poi la salutò, sussurrando; mentre svaniva in un sospiro azzurro, rotondo. Fluttuante come un dubbio.
La ragazza lo udì, e sentì di dover partire.
A un signore annoiato, che inseguiva col dito le crepe sul muro lungo la banchina, lei chiese:
«Mi scusi... sa dirmi quando passa, il treno per DOVE?».
«Non ha orario, signorina. Ma è sempre puntuale.»
E lei fiduciosa comprò un biglietto. Poi salì sul treno, ultima carrozza.
Come se quel viaggio servisse, a trovare una risposta. Come se quel treno potesse, finalmente, regalarle un po’ di pace.
Doveva pur trovarla, una risposta. Altrimenti l’avrebbe inventata.
La pace poi, forse, sarebbe venuta da sé. Insieme alla risposta.
La ragazza accolse con pazienza il rumore ritmico, e ripetitivo, che subito si insinuò nelle sue orecchie. Poi il faticoso sentore di sbuffi metallici, che presto iniziò a pungolarla da sotto il sedile scomodo. E infine l’implacabile inquietudine, che non attese molto per attanagliare, come una morsa, le sue gambe stanche.
Accettò tutto. Anche quando, dalle orecchie e dalle gambe, il rumore e l’inquietudine strariparono nel suo stomaco, e poi dallo stomaco si riversarono nel suo ventre.
Ci riuscì perché, dopo tutto, quei continui sobbalzi, quel fastidioso stridore di latta, quell’ostinato fracasso di ingranaggi, erano solo un solfeggio nella sua mente assente. Un solfeggio in due tempi: pausa in battere, due semicrome in levare.
Così, mentre i suoi pensieri stanchi continuavano a solfeggiare, oltre il finestrino, opaco di polvere e righe arrugginite la pianura, fuggendo desolata, tentava invano di specchiarsi nei suoi occhi.
Entrò una donna anziana, sedette accanto alla ragazza. Respirando piano, muovendosi silenziosa. Gli occhi chiari persi, malinconici.
Riflesse sul vetro torbido, le pieghe scolpite sul suo volto, magro e pallido, si mescolarono alle rughe di rugiada.
Ma la ragazza non vide la vecchia, non avrebbe potuto. Il suo sguardo continuava a inseguire impronte invisibili. I suoi occhi non riuscivano a riflettere la pianura che le correva accanto. E la sua mente, assente, era già al capolinea.
Né la vecchia vide la ragazza, piuttosto la percepì come un’ombra. Immobile nella poca, sbiadita luce tiepida che filtrava dal finestrino. Silenziosa, nella corsa rumorosa di quel fragile ammasso di ferraglie appeso ai binari.
Forse, in un altro posto, pur non vedendola avrebbe percepito il profumo, dolce e piacevole, della sua essenza provenzale.
Ma non su quel treno, dove l’aria umida era impregnata di fumo, e stantio. E le uniche folate percepibili dalle narici, le uniche che ancora potevano distinguersi nel fetore delle vecchie carrozze, puzzavano di piscio, e arrivavano dal bagno in fondo al corridoio. Ogni volta che la porta si apriva, e quindi ad ogni curva.
Se si fossero accorte l’una dell’altra, le due donne forse avrebbero parlato. Le loro chiacchiere, magari, avrebbero reso piacevole quel viaggio. Invece no.
Rimasero così, entrambe sole.
Prigioniere involontarie di un immutabile silenzio. Per l’una vuoto, per l’altra malinconico. Per entrambe costantemente immobile, nonostante la corsa inarrestabile. Della valanga di tempo che le avvolgeva, tiranno. Del poco spazio che le separava, spietato.
Prigioniere involontarie e inconsapevoli. Del Tempo, dello Spazio. Gli unici, subdoli artefici di quello strano viaggio improvvisato. Interminabile.
Al di qua del finestrino, come per secoli, sempre e solo quel rumore. Quella stancante percezione di sbuffi metallici che continuava a pungolarle, da sotto il sedile scomodo. E un’insostenibile inquietudine, nelle gambe sempre più stanche.
Oltre il finestrino la pianura, iridescente. Che ora correva incontro al treno, lasciando l’orizzonte a rosseggiare timido. Nella luce fioca dell’ultimo, esangue muro di cirri schierati a difendere il sole, ormai basso.
Correva e avanzava, la pianura. Sempre più veloce. Così veloce da non potersi specchiare, negli occhi della ragazza. Così veloce da non poterli neppure sfiorare, due occhi spenti. Talmente veloce da infuriare, infine, in un turbine tagliente.
Una tempesta, così repentina e inattesa da non poter essere udita. Scoppiata tuonando in un buio fulmineo, accecante. Per poi lentamente scemare in luce scura, spegnendosi.
Si udì un tonfo sordo, straziante.
Un botto, un urlo, un pianto. Qualcosa.
Forse la pianura era esplosa, aggrappandosi al treno. Poi, risucchiata da un vortice prepotente, si era mescolata alle infinite ordinate file di cipressi. Ormai in ombra, eppur fieramente protesi a tracciare il profilo, spigoloso, di un’apparente catena alpina.
Sulle finte cime, di quegli inesistenti monti, qualche superstite ricciolo di nebbia prese ad affrescare false vette, immacolate di neve o di ghiaccio. Porgendone l’illusione alla ragazza, e alla donna dagli occhi ancora spenti.
Regalando, ai loro sogni, una fantastica visione di candore e quiete: quei picchi innevati stagliati nel grigio, ora vermiglio, di un cielo di pianura.
Le due donne non vollero percepire il miraggio ma quello, prepotente, riuscì a marchiare le loro retine. E vi si impresse indelebile, a forma di DOVE.
E l’una si scrollò di dosso il torpore.
E l’altra riaccese lo sguardo.
...
Occhi negli occhi.
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bel viaggio Sabrina, queste due donne, queste due vite, queste due anime sono in realtà una sola!
RispondiEliminabravissima!!
bellissime parole! bravissima!
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