di Sabrina Calzia
scritto ricordando Rita Levi Montalcini.
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S’è liberata, nel sonno, non sa come; forse come quando s’affonda nell’acqua, che s’ha la sensazione che poi il corpo tornerà su da sé, e invece risale solamente la sensazione, ombra galleggiante del corpo rimasto giù.
Dormiva, e non è più nel suo corpo; non può dire d’essersi svegliata, e non saprebbe dire dove ora si trovi veramente: è come sospesa a galla nell’aria immobile della sua camera chiusa. Alienata dai sensi, distingue e riconosce il ricordo di com’erano, più che le rispettive percezioni; non sono ancora lontani, i suoi sensi, ma già li intuisce staccati, altrove da sé: là dov’è un rumore anche minimo nella notte, ecco l’udito, che pure in molta parte l’aveva abbandonata; e qua la vista, tornata come in un miracolo, tutta quanta, dov’è appena un barlume a rischiarar le pareti e il soffitto polveroso, e giù il pavimento col tappeto, e le pieghe morbide di un letto col piumino rosa, e le lenzuola bianche di raso sotto le quali s’indovina un corpo che giace inerte. Un corpo minuto, la testa piccola affondata sui guanciali scomposti, gli occhi chiusi e la bocca piegata in un sorriso dolce, lieve.
Lei, quella! Una che non è più. Una a cui quel corpo pesava già tanto, e che ormai con quel corpo vedeva così poco e sentiva ancor meno, e che fatica anche il respiro! Una che adesso però s’è liberata, e prova per quel suo corpo là, più che antipatia, rancore. Veramente non vide mai, lei che pure vedeva e comprendeva quasi tutto, la ragione per cui gli altri dovessero riconoscere quell’immagine così insignificante come la cosa più sua. Non era vero. Non è vero. Lei non era quel suo corpo; c’era anzi così poco di lei, in quel misero involucro! Lei era nella vita, nelle cose che pensava, che le si agitavano dentro, in tutto ciò che vedeva fuori, attorno a sé, senza mai guardare se stessa. Case strade cielo, tutto il mondo. E allora che facesse pure, quel suo povero corpo avvizzito... facesse pure ciò che più voleva. Poteva anche cedere al tempo, lui, che ormai si portava in spalla più di cento primavere: lei avrebbe continuato comunque, come sempre, a essere e sentirsi soltanto mente, intelligenza, intuizione. Puro pensiero inestinguibile, un intero battaglione di neuroni bellicosi e instancabili, forse anche immortali. Già, ma ora, senza più il corpo, prova un dolore nuovo, lei che di nulla s’è mai data pena, non per se stessa, almeno: questo sgomento del suo disgregarsi e diffondersi in ogni cosa, le cose a cui per tenersi sveglia torna ad aggrapparsi ma dalle quali, in questo stesso gesto, trae un timore sconosciuto. La paura non d’addormentarsi, ma del suo svanire nella cosa che resta là per sé, senza più lei: semplice oggetto. Una sveglia sul comodino, un quadretto alla parete, un paio di vecchie stampelle, un cimelio di microscopio ormai inutile sul tavolo in mezzo alla stanza. Lei ora è quelle cose, non più com’erano quando avevano ancora un senso per lei; quelle cose che per se stesse non hanno alcun senso, e che ora dunque non sono più niente per lei. Forse questo, è morire?
La casa di suo padre. Eccola ancora lì, ampia e maestosa, con una luna grande e tonda a illuminarla tutta, e a inondare di luce anche il suo bel giardino. In quella luce bianca, ora, lei riesce a scorgere le giovani gemelle, due fiori fragili in attesa di sbocciare, e scorgendole intuisce un ritorno di voce lontana, fragranza di risa aperte, graziose e spensierate.
Eccola lì, Paoletta; timida e solitaria, lei, così affettuosa e dolce, aggraziata nei modi e spontaneamente docile. Osserva la piccola Paola, la sente rivivere; e in quell’eco d’infanzia le sovviene il calore di un affetto immenso, mai mutato, che più che a ogni altro, in vita, la legò alla sorella. E ne rammenta il sorriso più recente, quello di donna adulta, più breve di allora ma al tempo stesso più maturo e consapevole. Ripensa alle sue labbra rosee e piene, alla gioia sincera che ne incurvava un pochino gli angoli, all’insù, durante quei colloqui interminabili con tele troppo candide e impazienti di sporcarsi, nei voli fantastici dei suoi pennelli unti e odorosi, impugnati a mo’ di spada per pungolare o trafiggere il tempio segreto e inviolabile dell’arte. Un tempio che Paola conosceva bene e sapeva plasmare con sapienza, in un modo tutto suo; inseguendo geometrie perfette, al tempo stesso morbide e forti, in grado di affrontare il caos burrascoso di un mare perennemente inquieto: la sua vivida e fervida ispirazione. Senza mai tradire un indugio, né abbandonarsi a un naufragio.
Poi accanto alla giovane Paola ritrova se stessa, animo indomabile e naturalmente scompigliato, bambina dall’indole vivace e ribelle, sempre un po’ crucciata e precocemente rapita da pensieri troppo gravi e profondi. Lei, Rita; la bimba che non volle e non seppe mai piangere, nemmeno a tre anni, eppure a quell’età fu già capace di offendersi irrimediabilmente col padre, in un giorno d’inverno in cui Torino, bianca di neve, era avvolta in un panno omertoso di silenzio. Non lo avrebbe perdonato, mai fino in fondo, quel genitore troppo severo e troppo ottuso, reo di averla privata del suo amatissimo, pur frivolo, cappellino bianco di feltro. Lei, Rita; la bimba orgogliosa e determinata che frequentava ancora le elementari quando decise che mai, in futuro, si sarebbe concessa la distrazione di creare una famiglia nuova, tutta sua, per non sottrarre tempo ed energia alla missione cui si era già votata: l’abbattimento dei pregiudizi che incatenavano le donne tarpando le ali alla creatività e all’intelligenza femminili. Non si sarebbe legata mai a nessuno, lei ch’era soprattutto libertà e fantasia, intuito e immaginazione. Lei che da sognatrice qual era, con gesti concreti e tangibili avrebbe mostrato al padre tutto il suo talento, diventando la sola, prima e inimitabile “Artista della Scienza”. Lei che avrebbe dimostrato al mondo intero che il suo essere artista e scienziata, e il suo essere donna in primo luogo, non le avrebbe mai posto un limite, ma al contrario le avrebbe offerto sempre il più ampio e sconfinato degli orizzonti.
E mentre rivede se stessa eccola, infine, arriva la sorpresa, e diventa a mano a mano più grande, e si fa infinita... ecco, l’illusione dei sensi, già sparsi, che a poco a poco si svuota di cose che pareva ci fossero e invece non ci sono: suoni, odori, colori. L’inganno si svela. E svelandosi finisce. Tutto ora è freddo e grigio e muto. Anche il cervello si è spento. Tutto è niente. E la morte... è questo niente, della vita com’era? Eppure anche in questo nulla fatto solo di silenzio, ancora il pensiero non vuol saperne di tacere, e invece di sbiadire e sfumare si riaccende in un fiato, e pian piano si gonfia, si stacca dagli oggetti e decolla, si libra in volo, diventa aria e cielo, ora rovente frizzante etereo come un fulmine ora freddo lento materico come neve. E che importa, allora, il consistere ancora in una cosa, se le cose sono niente o quasi, e il pensiero è tutto e in tutto, o quasi in tutto? Ché il pensiero è sempre stato tutto, di lei; e questo suo tutto non era solo cervello, ma anche cuore. Ed è proprio lì, nella magia ancora incomprensibile del cuore, che il pensiero può mutare, e magari trasformarsi in fiore, un piccolo fiore bianco che occhieggi timido da uno stelo fragile, minuto, quasi invisibile nel buio della notte.
- Oh guarda giù, nel giardino: quella margherita, bianca. Come s’accende! Perché?
Di sera, qualche volta, nei giardini s’accende così, improvvisamente, qualche fiore; e nessuno sa spiegarsene la ragione.
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