AZAB
Quel giorno mi apparve diverso, il paesaggio.
Solo silenzio, intorno a me; nella campagna immobile, che trasudava ancora umori di pioggia e vento. Per il violento temporale del giorno prima e la pioggerella senza sosta della notte.
Mi muovevo piano, attento. Continuando a spargere, mio malgrado, pennellate maldestre in un fragile sentiero di fango. Sporcando malamente una tela, incorniciata d’azzurro, che prometteva di essere perfetta; e che invece, purtroppo, sarebbe per sempre rimasta incompiuta.
Come potevo, io, saperlo.
Come avrei potuto, io, evitarlo...
Vedevo l’olmo, in lontananza. Scuro, accanto alla cascina sbiadita dal sole che, già alto all’orizzonte, stillava luce tra i batuffoli polverosi del cielo. E sputava lampi, fulgidi; che, a intermittenza, illudevano i miei occhi col miraggio del luccichìo di un diamante. Laggiù, oltre la riga indelebile tracciata nel grano. Laggiù davanti al pozzo, nel cortile grazioso di giare fiorite.
Giunsi alla staccionata, ai piedi dell’olmo. E lì mi fermai, sul limitare del sentiero, dritto in mezzo al grano, verso la casa di Priscilla. Che troneggiava splendida, nei suoi colori; su una campagna tenue, acquerellata sul Cielo.
Non capii subito, cosa ci facesse lì la volante della polizia.
Ma mi fu chiaro in un attimo quanto stridesse, in quel capolavoro di affresco, quel compatto fasciame di lamiere dipinte; e l’insistente ruotare, noioso, del blu gelido di quella sua lucina.
Lo vidi, in un istante.
E lo stridore si levò in urlo, e con l’urlo sentii i miei timpani impietrirsi, e nel freddo ruvido della pietra ascoltai il mio respiro allungarsi, e tendersi, fino quasi a spezzarsi. Come una fune logora, sempre più sottile.
Intanto l’olmo, impassibile, si stagliava superbo nell’aria grigia, ora irrespirabile.
Sembrava stanco, pur se ostentava il suo solito orgoglio.
Abbassò le palpebre, grevi. Increspò la fronte, grinzosa.
Lo sentii gemere, afflitto. Di un dolore acuto, dilaniante. Insanabile.
L’austero olmo pareva sconfitto.
...
Rassegnato.
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