Un giorno, è successo qualcosa.
Quel giorno ho smesso di odiarlo, il mio lavoro.
Ho cominciato ad apprezzarlo perché, finalmente, ne ho intuito la vera natura e compreso la ragion d’essere.
E’ stato l’Altro a mostrarmele? Sì, certo; è stato Lui.
Odio che qualcuno si intrometta nelle mie scelte, e credo che Lui l’abbia fatto; ma, a dire il vero, in quell’occasione gliene sono stato grato. Perché quel giorno ho amato il mio lavoro, grazie a Lui. E da allora, è sempre stato così.
Quel giorno ho buttato via i miei occhialini orribili, con le lenti decisamente opache e le stanghette un po’ storte. Ho sollevato con forza le mie spalle curve e, dopo tanto, mi sono guardato allo specchio.
L’Altro me era lì, e finalmente mi sorrideva.
Ma io, che con tanta pazienza Lo avevo sopportato, in passato, solo per amore di Priscilla, quella volta ho finto di non vederLo. Non volevo darGli una soddisfazione, mostrandomi riconoscente per ciò che, quel giorno, mi aveva mostrato.
Lui certamente sapeva, quanto mi sarebbe piaciuto ringraziarLo. E non mi ha perdonato, di non averlo fatto.
Potevo iniziare una nuova vita, quel giorno. Accanto a Priscilla e con l’Altro al mio fianco. Una vita migliore, con i miei nuovi occhi e le mie nuove spalle. Diritte, vigorose.
Invece no. Ho perso l’occasione. Per il mio inguaribile, stupido orgoglio. Perché Lui si è indispettito, per l’irriconoscenza. E mi ha mollato.
Così il mio Tempo ha cominciato a scivolare veloce, come un torrente in piena. Lo vedi lì, sempre uguale. Sembra fermo eppure corre, e corre.
Corre sotto il sole, che lo fa brillare senza asciugarlo. Corre sotto la pioggia, che ingrigiendolo lo ingrossa, e lo rafforza. Corre sotto la luna e le stelle, che lo osservano dall’alto, indiscrete. Senza concedergli nulla, di sé; a parte un tremulo riflesso, per lo più bugiardo.
Come un fiume in piena, il mio Tempo scivolava impetuoso, verso valle. Ed io con Lui. Senza mai arrivare, senza mai finire. Senza potermi aggrappare all’Altro, né a Priscilla. Che ormai non riusciva a tenere il mio passo, ed era sempre più distante.
Non ho realizzato subito, che la stavo perdendo.
Pensavo che per noi, come per tutti gli amori, fosse solo arrivata la quiete, dopo la tempesta.
Quel periodo in cui la passione smette di infuriare; di scuotere gli alberi e spezzare i rami. Quella stagione in cui, nel fiato tenue del vento, le farfalle sfiorano il cielo e puoi distinguere, sotto lo scorrere del traffico della superstrada, il cinguettìo chiassoso degli uccelli tra le fronde in fiore. In cui le cime svettano bianche, all’orizzonte; alte e fiere. Nitide nell’azzurro, e lievemente arrotondate. Come levigate, dalle intemperie; al pari dei nostri contrasti, smussati dalle violente ma brevi burrasche giovanili.
Avvertivo qualcosa di nuovo, fra noi. Credevo fosse quiete, invece mi sbagliavo.
Sentivo in me una nuova forza, un inatteso coraggio. E il mio nuovo cuore, temerario, credeva che le piccole, grandi miserie del mondo, sul nostro cammino sarebbero state come minuscoli sassolini. Che si sarebbero sgretolati, prima di riuscire a intrufolarsi nelle nostre scarpe. Ma mi illudevo.
Le mie suole erano abbastanza dure, il mio peso abbastanza forte. Ma lei, che pure dei due era sempre stata la più tenace, aveva suole morbide; ed era snella e leggera, come uno scricciolo. E adesso che, sballottato nella furia del mio Tempo, non riuscivo a tenerla per mano, il suo peso da solo non poteva vincere contro quei piccoli, puntuti sassolini.
Così quelli, subdolamente, si incastonavano nelle sue suole, passo dopo passo; in punta, di lato, al centro. E restavano lì: immobili, non visti, chissà per quanto.
Poi un passo falso, e quelli si spostavano. Di un millimetrico zic. Si giravano di punta, entravano.
Anche a toglierlo, il sassolino, restava il buco nella scarpa.
Invisibile. Irreparabile.
Il buco restava.
Per sempre.
Quel giorno ho smesso di odiarlo, il mio lavoro.
Ho cominciato ad apprezzarlo perché, finalmente, ne ho intuito la vera natura e compreso la ragion d’essere.
E’ stato l’Altro a mostrarmele? Sì, certo; è stato Lui.
Odio che qualcuno si intrometta nelle mie scelte, e credo che Lui l’abbia fatto; ma, a dire il vero, in quell’occasione gliene sono stato grato. Perché quel giorno ho amato il mio lavoro, grazie a Lui. E da allora, è sempre stato così.
Quel giorno ho buttato via i miei occhialini orribili, con le lenti decisamente opache e le stanghette un po’ storte. Ho sollevato con forza le mie spalle curve e, dopo tanto, mi sono guardato allo specchio.
L’Altro me era lì, e finalmente mi sorrideva.
Ma io, che con tanta pazienza Lo avevo sopportato, in passato, solo per amore di Priscilla, quella volta ho finto di non vederLo. Non volevo darGli una soddisfazione, mostrandomi riconoscente per ciò che, quel giorno, mi aveva mostrato.
Lui certamente sapeva, quanto mi sarebbe piaciuto ringraziarLo. E non mi ha perdonato, di non averlo fatto.
Potevo iniziare una nuova vita, quel giorno. Accanto a Priscilla e con l’Altro al mio fianco. Una vita migliore, con i miei nuovi occhi e le mie nuove spalle. Diritte, vigorose.
Invece no. Ho perso l’occasione. Per il mio inguaribile, stupido orgoglio. Perché Lui si è indispettito, per l’irriconoscenza. E mi ha mollato.
Così il mio Tempo ha cominciato a scivolare veloce, come un torrente in piena. Lo vedi lì, sempre uguale. Sembra fermo eppure corre, e corre.
Corre sotto il sole, che lo fa brillare senza asciugarlo. Corre sotto la pioggia, che ingrigiendolo lo ingrossa, e lo rafforza. Corre sotto la luna e le stelle, che lo osservano dall’alto, indiscrete. Senza concedergli nulla, di sé; a parte un tremulo riflesso, per lo più bugiardo.
Come un fiume in piena, il mio Tempo scivolava impetuoso, verso valle. Ed io con Lui. Senza mai arrivare, senza mai finire. Senza potermi aggrappare all’Altro, né a Priscilla. Che ormai non riusciva a tenere il mio passo, ed era sempre più distante.
Non ho realizzato subito, che la stavo perdendo.
Pensavo che per noi, come per tutti gli amori, fosse solo arrivata la quiete, dopo la tempesta.
Quel periodo in cui la passione smette di infuriare; di scuotere gli alberi e spezzare i rami. Quella stagione in cui, nel fiato tenue del vento, le farfalle sfiorano il cielo e puoi distinguere, sotto lo scorrere del traffico della superstrada, il cinguettìo chiassoso degli uccelli tra le fronde in fiore. In cui le cime svettano bianche, all’orizzonte; alte e fiere. Nitide nell’azzurro, e lievemente arrotondate. Come levigate, dalle intemperie; al pari dei nostri contrasti, smussati dalle violente ma brevi burrasche giovanili.
Avvertivo qualcosa di nuovo, fra noi. Credevo fosse quiete, invece mi sbagliavo.
Sentivo in me una nuova forza, un inatteso coraggio. E il mio nuovo cuore, temerario, credeva che le piccole, grandi miserie del mondo, sul nostro cammino sarebbero state come minuscoli sassolini. Che si sarebbero sgretolati, prima di riuscire a intrufolarsi nelle nostre scarpe. Ma mi illudevo.
Le mie suole erano abbastanza dure, il mio peso abbastanza forte. Ma lei, che pure dei due era sempre stata la più tenace, aveva suole morbide; ed era snella e leggera, come uno scricciolo. E adesso che, sballottato nella furia del mio Tempo, non riuscivo a tenerla per mano, il suo peso da solo non poteva vincere contro quei piccoli, puntuti sassolini.
Così quelli, subdolamente, si incastonavano nelle sue suole, passo dopo passo; in punta, di lato, al centro. E restavano lì: immobili, non visti, chissà per quanto.
Poi un passo falso, e quelli si spostavano. Di un millimetrico zic. Si giravano di punta, entravano.
Anche a toglierlo, il sassolino, restava il buco nella scarpa.
Invisibile. Irreparabile.
Il buco restava.
Per sempre.
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Non vedo l'ora di leggere il tuo libro, è in arrivo! Già l'estratto mi piace... assaissimo!!
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