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lunedì 10 giugno 2013

GIALLO. Piccola Lulu


Il mio racconto di Maggio per la rubrica "Donne a colori" sul blog


Immagine tratta da

Quel giorno l’ho lasciata tra le braccia di mio padre; dormiva serena, perciò me ne sono andata a cuor leggero. Nonostante tutto il trambusto che avevo intorno, il muso lungo di papà e lo sguardo attonito di Giorgio, il nostro maggiordomo di sempre, un’espressione balorda che non gli avevo mai visto e che in quel momento non capivo.
Uscii di casa camminando all’indietro, qualcuno mi stava tirando per le spalle e io ogni tanto inciampavo nei miei stessi piedi, ma continuavo ugualmente a fare il gambero, forse lo trovavo divertente, e comunque in quel momento non sarei stata in grado di voltarmi, ché i miei occhi s’erano come incollati a quegli insoliti e vistosi bracciali che Giorgio s’era infilato intorno ai polsi, sembravano manette.
Era tutto a posto, lo sapevo. Avevo fatto il mio dovere fino in fondo.
Le avevo già dato un nome, e avere un nome era tutto, non le sarebbe servito altro; e adesso la stavo lasciando al sicuro in braccio a suo nonno, lì poteva dormire tranquilla.
«Lucrezia, papà! Si chiama Lucrezia!». Lo vidi annuire, e ne fui rassicurata.

Darle un nome. Scegliere un bel nome. Era stato questo il mio primo pensiero, la mia grande e unica preoccupazione nell’istante stesso in cui avevo saputo che lei sarebbe stata mia: l’ansia di trovarle un nome bello, degno di lei e di quello che per me sarebbe stata. Degno di me.
È questo quello che ho provato, e non gioia o tenerezza, certamente non sconforto né paura di non essere all’altezza o chissà che altro. E dopotutto credo sia stata una reazione naturale, visto che il non aver mai avuto un nome vero, un nome che mi appartenesse da subito e fosse realmente tutto mio, è sempre stata la mia grande dannazione.
Il nome di mia nonna me l’hanno appioppato per dovere, e potevano anche farne a meno, dico io, se poi mi hanno sempre chiamata col nome di mia mamma, poveretta... salvo poi pronunciarlo tutti, mio padre per primo, con quell’odiosa riluttanza triste che ero certa volesse dirmi: “Piccola cara non volermene, il suo nome te lo concedo ma rassegnati, non sei come lei né mai potrai esserlo... il confronto non regge!”
Mio padre stentava a pronunciarlo, quel nome, forse non riusciva ad abituarsi del tutto all’assenza di mia madre, così preferiva chiamarmi “piccolina” e se parlava di me con qualcuno diceva sempre e soltanto “mia figlia”. Per Giorgio ero “la signorina”, per zia Clara “la pupetta”, e per tutti gli altri, o quasi tutti, io ero semplicemente “la figlia di”; e dopotutto mi andava anche bene, se era proprio così che io stessa ero solita presentarmi: come “la figlia di”... figlia di mio padre e di una donna che non c’era più. Una donna molto bella e amata da tutti, che un giorno a causa mia era volata in cielo troppo giovane. Partorendo.
Quasi nessuno usava il mio vero nome, quello di mia nonna. E quando qualcuno mi chiamava con quel nome, il nome di mia madre, percepivo nei suoi occhi un conato di compassione che per me era una pugnalata in petto ogni volta, e allora il mio odio per lei cresceva, e io mi arrabbiavo con Dio e col mondo intero e poi anche con me stessa... per averla uccisa così, senza neppure esserne cosciente; arrivavo a pensare che avrei preferito farlo dopo, probabilmente con più motivi e maggior soddisfazione.
Pensieri malvagi, lo so, ma in fondo ero solo una bambina! Una piccola bimba indifesa, senza mamma e senza nome; che avrebbe forse voluto più affetto, e che sognava baci e carezze impossibili... e cercava vendetta alla sua impotenza sfogandosi in quelle innocenti farneticazioni.

La mia bambolina avrà un nome vero, tutto suo da subito e per sempre.
È stato questo il mio primo, anzi l’unico pensiero, il motivo l’ho già spiegato. Forse non ero molto lucida in quel momento, ricordo bene che mi ero appena fatta, la musica era troppo alta e il soffitto mi ballava addosso e le gambe mi s’intrecciavano in continuazione... ma sarebbe andata così in ogni caso, lo so, di questo sono certa.
Pensa e ripensa, quel giorno nel delirio ho scelto “Lucrezia”, che poi è diventato “piccola Lulu” che no, non è una storpiatura ma un diminutivo tenero, affettuoso: io sono la sua mamma, e quindi posso farlo.
Da quando è arrivata la mia Lulu, finalmente ho smesso di essere per tutti “la figlia di”, e sono diventata con orgoglio “la mamma di”. Il che, devo dire, è molto più gratificante.
Stringere al petto la mia bambolina, la prima volta, è stato come rinascere. La tenevo con cautela, mi sembrava talmente piccola e fragile che temevo potesse rompersi da un momento all’altro. E mentre la guardavo dormire tra le mie braccia, chissà perché, continuava a balenarmi in mente l’idea che in realtà quella che avevo in mano fosse solo una statuina di sabbia bagnata, che avrebbe conservato quella forma favolosa finché fosse rimasta umida, ma poi asciugandosi si sarebbe sgretolata a poco a poco e sarebbe scomparsa sotto i miei occhi impotenti, scivolandomi tra le dita senza che io potessi far niente per evitarlo, e prevedevo il vuoto incolmabile che avrei avuto nelle mie mani, mani che senza di lei non sarebbero mai più state così grandi e forti come in quel momento e che per sorreggermi avevano bisogno di un appiglio, e quell’appiglio era lei, e anche se poteva sembrare che io la stessi tenendo in braccio in realtà era lei, la mia ancora di salvezza. Era Lulu a tenere in vita me, e non viceversa.
La guardavo dormire serena, e per un attimo mi sentivo felice, leggera e in pace con me stessa come mai avrei creduto possibile. Ma un istante dopo, chissà come, i miei pensieri impazzivano, facendomi naufragare nella solita visione della statuina di sabbia o in mille altre allucinazioni che non voglio nemmeno ricordare, e io non riuscivo a fermarli, provavo a controllarli seguendo il ritmo del respiro lieve e regolare di Lulu, camminavo su e giù per la stanza inspirando espirando e tentando di calmarmi... poi lei si svegliava piangendo, la prendevo in braccio e la cullavo, prima dolcemente, ma lei piangeva ancora e io aumentavo il ritmo, la cullavo con più energia e la scuotevo, e lei per tutta risposta strillava sempre di più, sempre più forte, non riuscivo a farla smettere. Allora la ributtavo nella culla, sbattevo la porta. E tornavo a farlo.
Mi facevo, ancora.
Dopo essermi fatta era tutto più facile, mi mettevo a ballare col soffitto e la musica a palla, le gambe mi s’intrecciavano per un po’ e poi pian piano si scioglievano, e quando si erano sciolte del tutto la musica finiva e io me ne tornavo nell’altra stanza, stordita ma contenta, e allora ricominciavo a giocare a far la mamma.
Però quella volta il pianto non cessava, e anzi era un crescendo, arrivava a sovrastare il volume più alto dello stereo ed era davvero insostenibile, talmente forte che m’impediva di danzare. Spalancai la porta, indispettita, mi avvicinai alla culla animata da una rabbia che stentavo a trattenere, e d’istinto la presi in braccio con una furia quasi violenta.
Poi vidi il suo visino dolce, e subito mi ammansii: tutta la collera sembrava svanita; si era come dissolta, in un attimo.
La guardavo strillare e restavo lì, impietrita. Ero incantata, estasiata dalla sua straordinaria perfezione; pur se gli occhi strizzati erano ora fessure pressoché invisibili, e il suo minuscolo nasino sembrava quasi un brufoletto, così arricciato dal pianto. Era comunque talmente bella! Con la sua tutina gialla, le gote tonde e piene un po’ arrossate, i pugnetti chiusi e i piedini imbizzarriti... la strinsi al petto e ripresi a cullarla, e mentre la cullavo le mie braccia s’intrecciavano, e io non potevo scioglierle e la stringevo, la stringevo forte forte ma nonostante il mio abbraccio il pianto era sempre più straziante, soffocante, disperato.
La mia bambolina ha smesso di piangere, adesso. Qui dentro ho imparato a cullarla bene, le canto canzoncine e le massaggio il pancino quando ha le colichette. Sono diventata brava anch’io, alla fine. Ormai sono una mamma vera che ha smesso di farsi, con le buone o le cattive non importa, quel che conta è il risultato e stavolta, incredibile ma vero, ho finalmente tagliato il traguardo.
Devo ammetterlo, se ce l’ho fatta devo esser grata a Lulu, alle sue piccole manine, alle sue guanciotte rosa, alla sua boccuccia a forma di cuore, ai suoi piedini sempre irrequieti, al suo sederino liscio liscio e ai suoi grandi occhioni scuri... perché qui dentro ho amato tutto e così tanto, di lei, che un giorno finalmente i miei pensieri hanno smesso di impazzire e sfuggire al mio controllo, e io sono riuscita a chiudere per sempre con tutta quella robaccia che un tempo m’infilavo nelle vene.
Da allora mi sento una donna più vera, sana e consapevole. Completa.
E anche se in fondo al mio cuore sarò sempre, prima di tutto, semplicemente “la mamma di”... oggi tutti hanno imparato chi sono. Sanno dove vivo, come mi chiamo e quello che ho fatto. Lo sanno tutti. Non solo chi vive qui, come me, o chi mi ha conosciuto prima che vi entrassi. Ma anche chi non mi ha mai incontrata né mai mi vedrà, probabilmente, ché qui non ci è mai stato e non ci verrà mai, perché la sua vita è tutta là fuori.
Divento matta, se ci penso. Per qualche tempo ho avuto persino le prime pagine, una bella serie di servizi in TV e le interviste dei migliori giornalisti: il tutto fatto a regola d’arte, con puntuale citazione di nome cognome eccetera... quasi che ce li avessi anch’io, un nome e un cognome!
Me li hanno regalati, alla fine, grazie a Lulu; ma ancora stento a riconoscerli, e forse in fondo non credo che mi appartengano davvero.
Lucrezia avrà nove anni, domani. Alle dieci verrà papà a prendermi in auto, e insieme andremo a trovarla.
Lei e la mamma, con una bambola e un fiore.
Una rosa gialla, come ogni anno.
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