La vita è il mio viaggio. L'amore ne è meta, bagaglio, percorso.



PoesieRacconti

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mercoledì 23 giugno 2010

COME ARTEMISIA, di Maria Adele Popolo


"I pensieri sono come anelli di fumo, nell'attimo stesso che prendono forma svaniscono, dissolvendosi e rimescolandosi come la vita degli uomini e salendo al cielo diventano aria.
Così la mia vita, così i miei sogni, così i miei ricordi.
Mi sforzo di trovare le parole giuste, quelle che tra milioni più si avvicinano all'aria per raccontarmi e descrivermi a te e, allo stesso tempo, per illuderci entrambi e riadattarci al corso degli eventi.
E così ti racconto quello che forse è la mia realtà o forse è la mia illusione, il perenne inganno dei sensi. La mia esistenza."
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Poesie. Parole infilate come perle preziose, su un filo di seta sottile e trasparente.
E' questo quello che mi viene in mente, pensando a " Come Artemisia".
Perché è proprio questo che mi sono sembrati, leggendoli, gli otto brani che compongono questa riuscitissima raccolta: poesie bellissime, per forma e contenuto. Tutti indistintamente, sebbene differiscano l'uno dall'altro per genere e temi trattati.
Sono come poesie, questi brevi e toccanti racconti.
Storie semplici, tessute sul ricordo di luoghi e sensazioni. E sul sentimento, mai sbiadito, di un amore sincero e nostalgico per le proprie radici.
Poesie. Figlie di una memoria antica ma non troppo, ancora abbastanza vicina da far riemergere dalla coscienza, vivi e nitidi, tutti quei ricordi impregnati di odori e sapori che da sempre albergano nell'animo dell'autrice.
Una memoria in grado di portare alla luce, mescolando con sapienza la nebbia del passato alla lucida fantasia del presente, una dimensione tutta nuova, in cui la realtà e i sogni si confondono e si amalgamano con dolcezza. Trasportando il lettore, dalla prima pagina all'ultima, sull'onda delle emozioni.
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[...]
"Eccomi. Soffiata dalla brezza mattutina tra le viuzze strette del mio quartiere.
E' qui che mi troverai confusa tra i vapori esalati dal catrame nero e molle e i fantasmi del passato, del mio e del tuo. Ed è piacevole, rassicurante sapere di avere una meta, uno spazio dove fare ritorno in seguito al peregrinare di una vita, un luogo sicuro e caldo dove approdare, infine, dopo le mille illusioni e le tante svolte e i difficili adattamenti al corso degli eventi. Parole banali e comuni che si avvicinano all'aria, dove io sono, e al mio cuore... dove tu sei."

[estratti di VICO DEGLI EBREI, in "COME ARTEMISIA"]
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Maria Adele Popolo è nata nel 1964 a San Severo (FG) e dal 1995 vive a Nova Siri Marina (MT). E' biologa e contitolare con il marito di una Farmacia Agricola.
Amante del teatro, ha costituito nel 2003, con un gruppo di amici, la compagnia teatrale "I Fuochi Fatui" di cui è tutt'ora regista e direttrice artistica. E' l'autrice di molte commedie che la compagnia ha portato in scena con successo e apprezzamenti di pubblico e di critica. Alcuni lavori teatrali sono stati premiati in concorsi nazionali.
"Come Artemisia" è la sua prima pubblicazione (edita da Zerounoundici nel Settembre 2009).

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venerdì 18 giugno 2010

Da "LA META' DI CREDERE"


SEIF

Un giorno Priscilla è scomparsa.
Era un giorno, come tanti altri.

Anche quel giorno mi sono svegliato all’alba. La mia sveglia il canto del gallo, come sempre.
Qualche filo di luce si intrufolava nella stanza, passando dagli infissi sgangherati.
Ho aperto gli occhi, e lei non era accanto a me, nel letto.
«Forse oggi doveva uscire prima, e si è scordata di dirmelo... » ho azzardato. E sono sceso in cucina, a cercare un biglietto che non c’era.
«Forse me l’ha detto, e sono stato io a scordarlo... » ho pensato. E intanto fiutavo l’aria, cercando l’aroma del suo caffé, invano.
Niente caffé. Solo amaro, ma nella mia bocca.
«Forse era in ritardo, e aveva fretta... » ho concluso, semplicemente.

Lei non c’era.
Non so perché, non gli ho dato peso.
Ho preparato e bevuto il caffè, mi sono lavato, vestito, pettinato. Il pullman dei pendolari era già passato, facendo stridere le gomme sull’asfalto, come sempre.
Sono uscito, ho inforcato la mia bicicletta.
Poi ho pensato a qualcosa; non ricordo a cosa, ma non a lei.
Lei era con me ogni mattina, e ogni sera.
Non quella mattina; ma l’avrei trovata a casa la sera, rientrando dopo una gratificante giornata di lavoro. Non potevo pensarla. Lei non era ancora, un ricordo.
Quella sera però, salendo le scale, devo essermelo chiesto. Chissà se sarà ad aspettarmi, alla porta. Col sorriso in volto, il grembiule in vita, i riccioli un po’ scompigliati, le guance arrossate dal calore dei fornelli...
Chissà.
Salivo le scale, con un’ansia improvvisa nello stomaco. Di rivederla. E un nodo di paura da sciogliere, in gola. Doloroso.
Salivo piano, perché il fiato mi mancava; e rumorosamente, per essere sicuro che mi sentisse. Ma non c’era nessuno, alla porta.
Ho preso le chiavi, nella tasca interna del giaccone. Ma qual’era quella giusta, non c’era, non la trovavo. Un po’ per la vista offuscata, un po’ per il tremore alle mani...
Eccola.
Ho aperto la porta, ho cercato l’interruttore alla mia sinistra, ho acceso la luce. La nostra bella casa.
Ho richiuso l’uscio alle mie spalle, mi sono sfilato il giaccone, l’ho appeso al chiodo dietro la porta.
Faceva freddo, la stanza era troppo vuota. Lei non c’era, e la stanza appariva così spoglia!
Non che ci fosse qualcosa di diverso.
Non ci sono mai stati quadri, né foto, appesi alle pareti. Non ci sono mai state tende, alle finestre; né soprammobili, o inutili cianfrusaglie. Solo un divano, una vecchia madia, un vaso cinese vuoto; il camino, un cesto per la legna, la TV su un tavolino basso. E una mensola, sulla parete bianca, proprio di fronte all’ingresso. Con qualche libro, vecchio e impolverato. Chissà da quanto erano lì, quei libri. Ingialliti, puzzolenti, forse mai letti.
C’era anche una bambola, sulla mensola coi libri.
Una bambola bionda di porcellana, con grandi occhi verdi di vetro, e una palpebra abbassata a metà. Un bel vestitino a fiori, le scarpine lucide, il cappellino bianco ingiallito con la tesa orlata di pizzo.
Era lì da così tanto tempo, che ormai non la vedevo più.
Non la guardavo mai, ma quella sera era lei, a guardarmi.
«Siamo rimasti soli, io e te... » voleva dirmi.
Vero. Eravamo soli.
Ho sentito un brivido, lento, salirmi su per la schiena. E poi irradiarsi alle braccia, alle gambe, alle mani, ai piedi. Faceva freddo, e quel freddo mi paralizzava.
Ma la mia fronte era calda, e le mie tempie pulsavano impazzite. I miei pensieri correvano, e fuggivano, non potevo fermarli. Li sentivo gridare e strepitare, nella mia mente. Ma non capivo, cosa dicessero. Non erano voci chiare, gridavano tutte insieme, facevano un gran baccano. E gridando e strepitando riuscivano a materializzarsi, a librarsi nell’aria, leggere.
Potevo vederle, quelle voci; avevano un corpo, erano materia. Le vedevo davanti ai miei occhi e non potevo fermarle, ascoltarle, capirle.
Le loro parole oscillavano, in una strana danza. Alcune cadevano, altre salivano più in alto; come lapilli di cenere, che volteggiano frivoli e inconsistenti sulla fiamma scoppiettante di un focolare acceso.
Ed io restavo fermo, impotente; a veder danzare i miei pensieri ribelli, impazziti. E a guardarli sfumare nell’aria immobile, in una lenta dissolvenza; senza che fossi riuscito a fermarli, ascoltarli, capirli.
...
Poi più nulla.
Silenzio.
Mi sono voltato, verso la mensola dov’era la bambola.
L’ho guardata, con uno sguardo che doveva essere impietrito; e una domanda, negli occhi. Perché. Perché?
Lei mi guardava triste; coi suoi grandi, luccicanti occhi verdi e una palpebra abbassata a metà.
Si limitava a guardarmi, come non ci fosse niente da dire, o da fare, o da pensare. Non poteva o non voleva, rispondermi.
...
C’era solo un gran silenzio, dopo tutto quel baccano.
Mi avevano abbandonato anche loro, i miei pensieri.
Ero rimasto, definitivamente, solo.
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martedì 15 giugno 2010

Gilbert Cesbron e Lorenzo Cherubini

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"La felicità è uno strano personaggio:
la si riconosce soltanto dalla sua fotografia al negativo." *
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Ma io credo che in fondo non sia difficile essere felici.
Basta fermarsi ogni giorno, anche solo per un attimo. Mettere da parte la fretta, o la noia, o la distrazione; per guardarsi dentro e attorno e riscoprire, in questa ricerca, tutta la bellezza, il significato e il valore delle piccole grandi cose che abbiamo.
A volte basta una canzone, per riuscire a farlo.
Poesia e musica, insieme, hanno un potere davvero straordinario.
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"La felicità è come gli occhiali, che si cercano mentre li si ha sul naso." *

* Aforismi di Gilbert Cesbron
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giovedì 10 giugno 2010

IL TORRENTE, racconto bonsai

Questa volta, al contest per racconti fantasy
"Pesca lo scrittore che c'è in te"
organizzato dal forum Scrittori d'Italia, ho voluto partecipare anch'io.
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E' possibile votare i brevissimi racconti in gara (requisito di ammissione al concorso era il rispetto di un massimo di 3000 battute) entro il 26 giugno, andando qui:


Per votare bisogna essere iscritti al forum, i voti vanno da 1 a 4 e si assegnano replicando al post relativo. Il mio racconto è "Il torrente".
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Buona lettura!


L’elfo si stupì nel ritrovare quella moneta.
Credeva di essersene liberato, ed ebbe l’impulso di ignorarla. Ma l’indugio fu breve: non riuscì a evitare di raccoglierla. Ché quella, comunque, non avrebbe smesso di cercare colui che l’aveva forgiata colando nello stampo, assieme a tutto l’oro di cui disponeva, anche un pesante fardello di ricordi.
Una raffica di vento bucò la nebbia, spingendo Flo ad affrettare il passo sul sentiero. Ma l’oscurità, e lo scricchiolio dell’erba che con fili ghiacciati si accaniva contro le suole consunte dei suoi scarponi, lo invitarono a essere cauto.
Un brivido lo colse, e in quel fremito sentì di non avere altro appiglio che la bottiglia che teneva in una mano mentre l’altra, nella tasca scucita del mantello, stringeva la moneta coi suoi ricordi.

Giunto ai piedi della grande quercia, l’elfo alzò la bottiglia davanti al viso:
-A noi due, Amica!
e dalla tasca estrasse la sua memoria, ossidata dal tempo.
Chiuse gli occhi. E con la schiena incurvata dalla solitudine, percorse il tronco ruvido alle sue spalle.
Via il tappo, l’Amica parve protendere il collo verso di lui, per allietarlo col calore di una sbornia. Un solo sorso, e Flo fu sopraffatto dai ricordi. Dei giorni lontani in cui, dai rami del suo albero, guardava l’acqua del fiume scorrere, limpida come i suoi giorni, verso un destino immenso e variegato: il mare.
Un altro sorso. Ecco il bosco com’era allora: un’infinita distesa di arbusti snelli che speravano invano di diventare, un giorno, piante secolari.
Un sorso ancora. E gli parve di sentire l’amata Ela colorare, di risate argentine, l’azzurro terso della campagna lì intorno.
Illusione.

La muta Amica si era fatta leggera eppure, dopo l’efficace opera del vino, le mani dell’elfo avrebbero dovuto stringerla con una forza che ormai non possedeva.
Ci fu un tonfo improvviso. Di vetro, infranto sui nodi delle radici che spuntavano dal terreno. E il nettare di Bacco si sparse, silenzioso, fra le zolle gelate.
Morfeo, sfiorate coi petali di un papavero le palpebre dell’elfo, lo aveva già condotto fra le braccia del padre Sonno. Così Flo non udì i suoni del capitombolo, ma le sue orecchie lo percepirono alla strega di un’eco: del dolore che a lungo aveva tentato di rifuggire.
Un colpo sordo, un rapido accartocciarsi metallico, un istantaneo frantumarsi di vetri sogni speranze. L’irrimediabile perdita della sua amata Ela.

Sfiorato dall’alba, l’elfo si destò con le membra intorpidite e il cuore infreddolito.
Si sollevò a fatica da terra e, col disco d’oro ancora in mano, si avviò verso la strada, dove già le auto sfrecciavano con la solita fretta.
Chiuse gli occhi e, con quanta forza aveva in corpo, scagliò la moneta oltre la carreggiata.
Quando poi, più tardi, si costrinse a riaprirli, gli parve di vedere, al posto dell’asfalto, l’acqua scura di un torrente che arrancava, pigra, verso un futuro ignoto.
Nella vana attesa, forse, di un vento o una corrente straordinari che potessero, in qualche modo, farla scorrere a ritroso.

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martedì 1 giugno 2010

Estratto di "LA META' DI CREDERE"

Un giorno, è successo qualcosa.

Quel giorno ho smesso di odiarlo, il mio lavoro.
Ho cominciato ad apprezzarlo perché, finalmente, ne ho intuito la vera natura e compreso la ragion d’essere.
E’ stato l’Altro a mostrarmele? Sì, certo; è stato Lui.
Odio che qualcuno si intrometta nelle mie scelte, e credo che Lui l’abbia fatto; ma, a dire il vero, in quell’occasione gliene sono stato grato. Perché quel giorno ho amato il mio lavoro, grazie a Lui. E da allora, è sempre stato così.
Quel giorno ho buttato via i miei occhialini orribili, con le lenti decisamente opache e le stanghette un po’ storte. Ho sollevato con forza le mie spalle curve e, dopo tanto, mi sono guardato allo specchio.
L’Altro me era lì, e finalmente mi sorrideva.
Ma io, che con tanta pazienza Lo avevo sopportato, in passato, solo per amore di Priscilla, quella volta ho finto di non vederLo. Non volevo darGli una soddisfazione, mostrandomi riconoscente per ciò che, quel giorno, mi aveva mostrato.
Lui certamente sapeva, quanto mi sarebbe piaciuto ringraziarLo. E non mi ha perdonato, di non averlo fatto.
Potevo iniziare una nuova vita, quel giorno. Accanto a Priscilla e con l’Altro al mio fianco. Una vita migliore, con i miei nuovi occhi e le mie nuove spalle. Diritte, vigorose.
Invece no. Ho perso l’occasione. Per il mio inguaribile, stupido orgoglio. Perché Lui si è indispettito, per l’irriconoscenza. E mi ha mollato.
Così il mio Tempo ha cominciato a scivolare veloce, come un torrente in piena. Lo vedi lì, sempre uguale. Sembra fermo eppure corre, e corre.
Corre sotto il sole, che lo fa brillare senza asciugarlo. Corre sotto la pioggia, che ingrigiendolo lo ingrossa, e lo rafforza. Corre sotto la luna e le stelle, che lo osservano dall’alto, indiscrete. Senza concedergli nulla, di sé; a parte un tremulo riflesso, per lo più bugiardo.
Come un fiume in piena, il mio Tempo scivolava impetuoso, verso valle. Ed io con Lui. Senza mai arrivare, senza mai finire. Senza potermi aggrappare all’Altro, né a Priscilla. Che ormai non riusciva a tenere il mio passo, ed era sempre più distante.

Non ho realizzato subito, che la stavo perdendo.
Pensavo che per noi, come per tutti gli amori, fosse solo arrivata la quiete, dopo la tempesta.
Quel periodo in cui la passione smette di infuriare; di scuotere gli alberi e spezzare i rami. Quella stagione in cui, nel fiato tenue del vento, le farfalle sfiorano il cielo e puoi distinguere, sotto lo scorrere del traffico della superstrada, il cinguettìo chiassoso degli uccelli tra le fronde in fiore. In cui le cime svettano bianche, all’orizzonte; alte e fiere. Nitide nell’azzurro, e lievemente arrotondate. Come levigate, dalle intemperie; al pari dei nostri contrasti, smussati dalle violente ma brevi burrasche giovanili.
Avvertivo qualcosa di nuovo, fra noi. Credevo fosse quiete, invece mi sbagliavo.
Sentivo in me una nuova forza, un inatteso coraggio.
E il mio nuovo cuore, temerario, credeva che le piccole, grandi miserie del mondo, sul nostro cammino sarebbero state come minuscoli sassolini. Che si sarebbero sgretolati, prima di riuscire a intrufolarsi nelle nostre scarpe. Ma mi illudevo.
Le mie suole erano abbastanza dure, il mio peso abbastanza forte.
Ma lei, che pure dei due era sempre stata la più tenace, aveva suole morbide; ed era snella e leggera, come uno scricciolo. E adesso che, sballottato nella furia del mio Tempo, non riuscivo a tenerla per mano, il suo peso da solo non poteva vincere contro quei piccoli, puntuti sassolini.
Così quelli, subdolamente, si incastonavano nelle sue suole, passo dopo passo; in punta, di lato, al centro. E restavano lì: immobili, non visti, chissà per quanto
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Poi un passo falso, e quelli si spostavano. Di un millimetrico zic. Si giravano di punta,
entravano.
Anche a toglierlo, il sassolino, restava il buco nella scarpa.

Invisibile. Irreparabile.

Il buco restava.
Per sempre.

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